Addio alla diva bionda regina dei ruoli minori

Scomparsa a 85 anni la star americana che vinse due Oscar come attrice non protagonista

Maurizio Cabona

Chi ha meno di sessant'anni ricorda Shelley Winters (Schrift, all'anagrafe) solo come ricorda Simone Signoret (Kaminski, all'anagrafe), la «gemella»: interprete prima giunonica, poi obesa, di mogli sfatte o megere. Nell'annunciare la morte della Winters, avvenuta ieri a Los Angeles a ottantacinque anni, occorre dunque evocare subito la sua primigenia bellezza, che nessuna tv mostra più, perché è in bianco e nero.
Non è stata l'unica «ingiustizia» nella carriera della Winters: per Un posto al sole di Stevens - accanto a Montgomery Clift ed Elizabeth Taylor - non ebbe l'Oscar nel 1952; l'ebbe invece Vivien Leigh per Un tram che si chiama desiderio di Kazan. Allora la Winters era ancora la signora Gassman, sul punto di dargli la figlia Vittoria. Anzi, fu proprio Gassman a evitarle la gaffe di salire sul palcoscenico a ritirare un premio non avuto.
L'Oscar arrivò solo con Il diario di Anna Frank (1959), ancora di Stevens, ma per un ruolo secondario. Ne venne però un secondo come protagonista di Incontro a Central Park di Green (1965), un film dimenticatissimo anche perché, con l'integrazione razziale che procedeva a marce forzate, Hollywood premiava ormai gli interpreti quasi solo in funzione dei personaggi. La parte «alta» della carriera della Winters comprende tuttavia titoli impressionanti, anche se i suoi ruoli all'inizio erano minimi, come in Fiume rosso di Hawks (1948), il film che suggeriva quel che Brokeback Mountain di Ang Lee avrebbe poi dichiarato: che i mandriani (qui John Wayne, Montgomery Clift e John Ireland) si consolavano fra loro. Già in Winchester '73 di Anthony Mann (1950), altro western ma accanto a un James Stewart dedito solo al fratricidio, il rango della Winters però cresceva. In Telefonata a tre mogli di Negulesco (1952) la prepotenza fisica - era stata ballerina di fila nei night club - le assicurava un ruolo da spogliarellista, senza che però la si potesse vedere spogliarsi. Torna accanto ad Alan Ladd, dopo Il grande Gatsby di Nugent (1949), nelle Giubbe rosse del Saskatchewan di Walsh (1954).
Quando era moglie di Gassman, la Winters aveva lavorato con un altro grande regista, Wellman, nel Mio uomo (1952), tratto dalla sceneggiatura dell'italoamericano John Fante. Ma sarebbe stato con un regista all american e intellettuale come Robert Rossen che lei avrebbe girato in Italia Mambo (1954). L'anno successivo sarebbe stato per la Winters quello di due film che il tempo continuamente rivaluta: Il grande coltello di Aldrich e La morte corre sul fiume di Charles Laugthon. Ma accanto all'attore in crisi interpretato da Palance nel primo e al maniaco criminale interpretato da Mitchum nel secondo, lei restava schiacciata.
Intanto l'unione con Gassman era finita e la Winters non doveva più nascondere il «collezionismo», che le avrebbe offerto - una volta in là con gli anni - materiale per raccontare in due libri i suoi amori con nomi, cognomi e giudizi. È una lista anch'essa impressionante, che include - sono i più celebri - Flynn e Gable, Holden e Lancaster. Disse no solo a James Dean, ma solo perché - dubitando del suo interesse - non aveva capito.
L'ultimo squarcio di grande cinema della Winters sarebbe venuto da Monicelli: accanto a Sordi nel Borghese piccolo piccolo (1977) è lei la madre squallida e triste, poi distrutta, di un infimo figlio (Crocitti) che trova morte casuale per una rapina.

E nello stesso anno si rivelava anche più toccante negli attimi in cui tratteggia una nonna che vede il nipotino carpito su una spiaggia da un calamaro gigante in Tentacoli di Assonitis. La bomba di Giulio Base (1999), l'ultimo film, le avrebbe permesso di recitare con Gassman e col figlio di lui, Alessandro. In effetti è stato solo un affare di (ex) famiglia.

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