Fino a qualche tempo fa c’era ancora una Cinquecento microscopica che girava tra Appiano Gentile, via Durini e San Siro, con dentro un omino microscopico ma sempre pieno di energia, anzi di veleno. Un omino dalla lingua veloce quanto le sue gambe, almeno quelle dei tempi in cui infiammava l’Arena e San Siro. Un omino che girava sempre con un quadernone sotto il braccio, una specie di diario in cui diceva di aver scritto la vera storia dell’Inter, almeno quella dei suoi tempi, e che un giorno l’avrebbe raccontata a tutti.
Un omino che si chiamava Benito Lorenzi, il più interista di tutti gli interisti, come disse un giorno Massimo Moratti, uno che lo conosceva bene, che lo considerava quasi come un secondo padre, e che oggi lo piange come purtroppo gli è capitato troppo spesso negli ultimi tempi. Una bandiera che pensi di veder sventolare in eterno e che invece improvvisamente finisce nell’album dei ricordi, nelle foto ingiallite, come Peppino Prisco, come Giacinto Facchetti. Un altro pezzo di storia vera dell’Inter che se ne va, come a far pesare una strana legge del contrappasso alla gente nerazzurra che finalmente può festeggiare le vittorie del campo.
Quel campo su cui Lorenzi ha rappresentato per più di un decennio la vera anima nerazzurra, portandosi addosso quel soprannome di «Veleno» che gli aveva appioppato addirittura sua madre, che era diventato un simbolo per chi aveva fede interista e fumo negli occhi per chi stava dall’altra parte, che fossero milanisti o juventini. Basti pensare ai tanti derby che Veleno aveva infiammato, al leggendario mezzo limone infilato sotto il pallone calciato alle stelle su rigore da Tito Cucchiaroni, ai duelli con Carletto Annovazzi con cui poi andava a ballare alla sera. Oppure ai battibecchi con Boniperti, amico in nazionale (14 partite in azzurro e 4 gol per Lorenzi, con due mondiali al suo attivo), nemico in campionato, fino a inventargli il soprannome di Marisa. O a quella volta che credette di offendere il gallese Charles prendendosela in modo poco elegante con la Regina.
Ma Veleno era così, non guardava in faccia a nessuno, nemmeno a chi stava con lui, come quella volta che mise le mani addosso a Stefano Nyers perché aveva sbagliato un gol solo davanti alla porta, e l’ungherese, offeso, voleva andarsene dal campo. Proprio Nyers che fu la sua spalla ideale nelle stagioni migliori, quelle dei due scudetti consecutivi vinti nel ’53 e nel ’54 sotto la guida di Alfredo Foni. Un’Inter in cui Lorenzi faceva la seconda punta, ispirato da un altra leggenda come Nacka Skoglund.
Tanto veleno, ma anche tanto buon cuore, come quello che ha avuto nei confronti dei piccoli Mazzola che dopo la tragedia di Superga sono finiti proprio sotto la sua ala protettrice. Due ragazzi che ha aiutato a crescere nel ricordo del vuoto incolmabile lasciato da Valentino.
Veleno Lorenzi è stato tutto questo e ha continuato a sentirsi nerazzurro anche quando chiuse con l’Inter sul campo: nel suo ultimo anno in A ad Alessandria si trovò a fianco un ragazzino chiamato Rivera e lo fece opzionare da Moratti. Poi per una dimenticanza, il golden boy, finì al Milan. E forse fu l’unico sorso di veleno calcistico che dovette ingoiare lui.
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