Addio mito, torna la realtà La leggenda nera perde colpi

La differenza tra i sogni e la realtà è meno dieci. Barack Obama scorre gli indici di gradimento e lo sa: i numeri gli hanno dato il mondo, i numeri gli tolgono l'America. Un anno cambia la storia di una presidenza. Obama svolta al quattro novembre 2009 e torna indietro al 2008, quando l'impossibile diventò certezza, quando salì su un palco blindato a Chicago per parlare per la prima volta da primo presidente nero della storia. Tutto questo c'è ancora. L'immagine, la famiglia da baciare, il mondo da coccolare, il Paese da rimettere in piedi. Non è lui, non quello di un anno fa. Obama ha perso le parole ed è la contraddizione maggiore per l'uomo che s'è preso il futuro parlando. Non emoziona, non trascina, non illumina, non coinvolge.
Maledetti numeri, certo. L'approvazione della presidenza è scesa al 49 per cento ed erano vent'anni che la Casa Bianca non perdeva dieci punti in un anno. Dicono che l'indice di gradimento non sia un dato attendibile, però quando Bush era sceso al 29% sembrava essere la percentuale più importante del pianeta. Obama non si spaventa per i numeri, ovvio. Quello che lo preoccupa sono i fenomeni che stanno sotto traccia, che si muovono alle spalle di quegli indici: il partito democratico raccoglie meno donazioni dei repubblicani, i liberal di sinistra cominciano a distaccarsi dalla presidenza perché si sentono traditi dall'eccessivo realismo obamiano, l'opposizione da destra monta. Soprattutto c'è il primo appuntamento elettorale. Piccolo e però fondamentale. Vuoi o non vuoi, questo è un referendum sulla presidenza. Perché domani si vota in Virginia e New Jersey per scegliere il governatore e le cose per i democratici, e quindi per Obama, non sono allegre. La Virginia è già andata, persa al cento per cento. La Virginia che è alle porte di Washington e che sarà sì una terra conservatrice, però un anno fa a sorpresa scelse di votare democratico. Allora si può dire che questo è solo un ritorno alle origini, ma Obama non può non preoccuparsi. E non può non farlo soprattutto per il New Jersey, dove la partita è più aperta, ma dove perdere significherebbe avere uno schiaffo in faccia. Lo staff della Casa Bianca lo sa, per questo ha mandato uomini su uomini ad aiutare Jon Corzine che rischia il posto. Per il presidente la sconfitta in New Jersey sarebbe una figuraccia, i repubblicani e la Fox News l'interpreterebbero come l'inizio di un precoce declino democratico in vista del voto del 2010 che dovrà rinnovare tutta la Camera e un terzo del Senato.
Ma il problema di Obama è interno al partito più che esterno, adesso. Perché la sconfitta in New Jersey significherebbe aver perso il prestigio all'interno del mondo liberal. Obama ha appoggiato Corzine, ma quello è un candidato che ha scatenato l'ira della base democratica di uno Stato che guarda a New York per ispirarsi e non vota repubblicano da una vita. Il fatto, però, è che il governatore appoggiato dal presidente, lo chiamano l'«uomo di Wall Street». Perché Jon Corzine prima di entrare in politica fu il chief executive di Goldman Sachs. Un simbolo delle contraddizioni che segnano la squadra di Obama. Gli uomini di Barack sono accusati da destra di progetti socialisti, da sinistra di riprodurre un rapporto sotterraneo e subdolo con l'establishment. Ma l'establishment è quella strana cosa contro cui Obama si scagliava ogni volta, a ogni comizio, a ogni intervista, durante la campagna elettorale. Un anno fa. Eccola, allora, l'altra differenza tra sogno e realtà. Obama parlava di guerre da finire e di lobby da sconfiggere: non ha fatto né l'una né l'altra cosa. Ha avuto il Nobel per la pace, ma ha appena firmato il «più grande piano di spesa militare della storia del mondo», come ha scritto il Washington Post.
Poi il mondo degli affaristi washingtoniani, delle teste di ponte delle corporation nell'amministrazione e nella politica Usa: Obama li ha emarginati, ma non sconfitti. All'orizzonte s'intravede una massiccia offensiva della immensa industria farmaceutica danneggiata dall'ipotesi di riforma sanitaria di Obama. Ecco il presidente ha fatto la sua mossa: lo stato di emergenza nazionale per l'influenza A, ovvero la merce di scambio con le lobby. Perché Obama caduto nella realtà non può non usare il realismo. La questione non è lessicale, ma sostanziale. Lui l'aveva sempre detto di essere un pragmatico, anzi l'aveva detto e l'aveva anche fatto capire. Solo che un anno fa aveva approfittato dell'aura da Messia laico che gli avevano messo addosso. «Yes we can», lo slogan più geniale della storia politica mondiale: ha sbagliato chi l'ha letto come la voglia di cambiare il mondo, ha indovinato chi l'ha letto come la voglia di cambiare i protagonisti del mondo. Obama è il nuovo, impossibile dire il contrario. S'è trovato di fronte alla più grande crisi economica degli ultimi 50 anni. Ora ne esce lui, ne esce il pianeta. Malconci tutti e due, ripuliti tutti e due. Barack può lasciare allo strascico della crisi la sua retorica: «Noi saremo qui a evitare che si ripeta una cosa del genere». Così potrà fare il presidente: tre anni per dire al mondo chi è. Se è un sogno, una favola, uno show televisivo o un comandante. Ha vinto nel 2008 per farci vedere che c'era qualcos'altro che non avevamo ancora visto.

«La leggenda», abbiamo scritto tutti: è fatta di parole che non si perdono, è fatta anche di numeri. Perché chi ha i numeri vince, chi ha i numeri comanda, chi ha i numeri fa la storia, se ci riesce. Gli altri assistono.

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