L’alba era stata grigia, gonfia dei vapori che essudavano dalla giungla, mentre le onde dell’oceano Indiano si frangevano sulle spiagge di Anjouan con un rumore quieto, simile a un sospiro. La brezza che arrivava dall’interno faceva palpitare le palme che orlano la linea di marea, spargendo fin sulla costa il profumo dell’ylang-ylang e della vaniglia. Nessun segno premonitore, sotto i cieli incantati del decimo parallelo sud.
Parve incongrua, perciò, sulle prime, quella sventagliata di mitra che lacerò il torpore dell’isola. La padrona della locanda che si affaccia sul mercato di Mutsamudu si svegliò di soprassalto, si girò verso il marito, lo scosse e gli domandò: «Hai sentito? Che sarà?». L’uomo socchiuse un occhio, tese l’orecchio, si grattò la foresta di peli che gli esorbitavano dalla scollatura della canottiera e disse: «Ma niente. Sarà il solito colpo di Stato».
Era il 9 agosto 2001, data dell’ultimo golpe alle Comore. Ma quella volta, se non altro, il colonnello Bob Denard (al secolo Gilbert Bourgeaud) non c’entrava. All’epoca, le chien de guerre, come lo chiamavano, si era già ritirato. Ma il suo mito resisteva intatto. Non c’era stata volta, da quel 13 gennaio 1978 (e le volte erano state una ventina, se abbiamo tenuto bene il conto) in cui il suo nome non venisse evocato, quando i mitra tornavano a far sentire la loro voce e il ritratto del presidente cambiava alle spalle del bureau, nella locanda di Mutsamudu.
Bob Denard è morto ieri a Parigi, fottuto dai guasti di un Alzheimer che il vecchio mercenario chiamava la merde. Aveva 78 anni. Ma ancor oggi, se parlate con uno dei contractors col bottone nell’orecchio e la mitraglietta in pugno che si vedono a Bagdad (si chiamano così, contractors: è più chic, e fa meno fascio) li vedrete scattare sull’attenti, la mano sul cuore.
Il mito lo inseguiva dai tempi in cui Ali Soilih, lunatico dittatore che aveva mescolato le teorie del socialismo scientifico alla cultura animista isolana, aveva ordinato alle sue guardie di uccidere tutti i cani della Gran Comore. Una fobia inoculatagli da uno stregone, che in sogno aveva visto il presidente spodestato da «un uomo con un cane». Quattro mesi dopo quella strage, il 13 gennaio 1978, la profezia si avverò. Trenta mercenari presero terra nottetempo su una spiaggia vicina alla capitale, Moroni. A guidarli era lui, Denard. Al suo fianco c’era un pastore tedesco.
Lo chiamavano il «colonnello», ma i gradi se li era appuntati da solo nelle cento battaglie combattute in un quindicennio di scorribande sul suolo africano.
Gli uomini lo temevano. Le donne (sapeva essere crudele e charmant, il colonnello) lo adoravano. E un po’ deve essere stato anche per questo che Bob Denard finì per legare indissolubilmente il suo nome alle Isole del Profumo, sorelle povere delle Maldive, delle Seychelles e di Mauritius, piazzate a metà strada fra il Mozambico e il Madagascar.
L’ex maresciallo di Marina che aveva combattuto in Indocina e in Algeria si era messo in carriera nel ’60, offrendo i suoi servigi alle compagnie minerarie del Katanga. Alla testa dei suoi mercenari, che lo veneravano, Denard aveva combattuto per Ciombè contro Mobutu, per Mobutu contro i ribelli dello Zaire, e contro Mobutu a fianco dei katanghesi. Nello Yemen aveva dato una mano all’imam El Badr per domare un’insurrezione sostenuta da Nasser. Poi c’erano stati il Biafra, il Lagos, il Gabon e l’Angola, alleato di Savimbi e della sua Unita contro i cubani. Il suo mondo era stato sempre affollato di ordini, spari, urla, avventura.
Delle Comore, Denard sapeva solo quello che aveva letto su un’enciclopedia. Che la povera economia di quelle isole ruotava sulla coltivazione della vaniglia, del chiodo di garofano, dell’agave sisalana e dell’ylang-ylang, la pianta che fornisce l’indispensabiule fissatore per l’industria del profumo. Quando vide quelle terre, e ne fiutò le fragranze, fu amore a prima vista. Gli piacevano il cibo speziato e la camminata delle donne locali: il passo leggero, il cantabile di quelle natiche ondeggianti sotto teli di color arancio, fucsia, verde ramarro.
Finì per sposarsene sette, otto i figli, convertendosi all’Islam e assumendo il nome di Mustafà Mouhadjou. Lui e i suoi uomini, con la scusa di dare una mano al presidente Abdallah, si installarono nei posti chiave, guidando la polizia, le poste e i telefoni. Quando Denard camminava per le strade la gente lo salutava calorosamente, chiamandolo «il presidente numero 1». Nell’89, dopo che il presidente Abdallah era stato spazzato via da un razzo, Denard era tornato a imbracciare il fucile. Sei anni dopo eccolo ancora alle Comore per destituire il presidente Djohar. Ma quella volta, l’oliata catena di trasmissione che aveva sempre legato Bob Denard ai servizi francesi non funzionò. Arrivarono i parà da Parigi, e lui finì sotto processo.
«Senza guerra c’è il rischio di morire» era uno dei suoi paradossi preferiti.
Se poi gli parlavano di riposo del guerriero, la risposta, invariabilmente, era questa: «Il riposo del guerriero non esiste, tranne quando si è accanto a una donna. E Dio sa che i momenti di tregua non mi sono mancati...».Poi venne l’Alzheimer, a tradimento. E il «cane da guerra» non fu più lui. Ma continuò fino all’ultimo a sognare i cieli incantati del decimo parallelo sud.
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