Roma Quel quarto «sì» si sta trasformando in un bel problema, per il Pd. La scheda gialla, quella che vuole abrogare la parte della legge Ronchi che determina le tariffe del servizio idrico, e in particolare eliminare il concetto di «remunerazione del capitale investito» (ossia il margine di guadagno dei privati che decidano di investire sulla gestione dell’acqua) sta suscitando una mezza rivolta: nel partito, tra gli amministratori locali del Pd, nel mondo cattolico vicino alla sinistra, e - quel che più pesa - in quel potente blocco economico costituito dalle fiorenti multiutility (le aziende a partecipazione pubblica-privata che gestiscono i servizi di pubblica utilità, acqua inclusa) delle regioni rosse. Aziende come Hera, creata con le loro mani dagli amministratori locali emiliani del Pd, che per bocca dell’amministratore delegato Maurizio Chiarini (manager con un ricco curriculum che comprende anche la Lega cooperative e l’assessorato al Bilancio nella giunta di sinistra di Ferrara) ha lanciato un duro avvertimento al partito: «Se vince il sì, il referendum bloccherà gli investimenti, con effetti pesanti per l’occupazione e pericolosi per i consumatori».
Per il Pd emiliano è una rogna non da poco, visto che Hera - come ricorda Italia Oggi - è praticamente una sua creatura, distribuisce utili agli enti locali (3,6 miliardi di fatturato, 117 milioni di utili) e assicura posti di lavoro. E lo si capisce dalle reazioni di molti autorevoli esponenti locali del partito. Per l’assessore all’Ambiente di Bologna, Emanuele Burgin (che si schiera per il no) si rischia «il blocco dei servizi pubblici, perché i Comuni non hanno i fondi e l’effetto immediato del sì sarebbe la scomparsa delle risorse private». Paolo Natali, dell’esecutivo bolognese Pd, attacca la campagna a suon di slogan pro acqua pubblica: «Si sottovaluta che per portare quell’acqua ai nostri rubinetti servono grandi infrastrutture e rilevanti risorse umane ed economiche».
Al partito di Roma - a cominciare proprio dall’emiliano Pier Luigi Bersani - è ben chiaro il problema.
Tanto che qualche mese fa, all’inizio della campagna referendaria, i vertici del Pd vollero restarne fuori e mossero critiche di metodo (se i referendum falliscono si fa un regalo a Berlusconi rafforzandolo) e di merito (le norme sulla liberalizzazione dei servizi idrici le avevamo fatte noi, col governo Prodi) al comitato promotore guidato da Di Pietro. Di mezzo, però, ci sono state le amministrative e l’inaspettata ondata di vittorie del centrosinistra, e il segretario Pd si è convinto che il referendum potesse divenire l’arma finale per colpire il governo Berlusconi e compattare il fronte del centrosinistra. E ha alzato la bandiera dei «quattro sì». Non sono mancate discussioni anche serrate al vertice: dirigenti come Enrico Letta, Sergio Chiamparino, Enrico Morando, Stefano Ceccanti hanno contestato la linea scelta. «C’ero io a Palazzo Chigi con Prodi, e tu eri ministro, quando abbiamo passato giorni e notti a discutere e mediare con la sinistra radicale per far passare il nostro piano di liberalizzazioni delle public utilities. E ora chiediamo di cancellare una norma voluta da noi?», è stato il senso del ragionamento di Letta, e di chi è sulle sue stesse posizioni. La risposta del segretario è stata disarmante: «Ragazzi, lo so che nel merito è così. Ma come si fa a spiegare alla gente di votare tre sì e un no? Non ci capirebbero».
La battaglia del referendum è tutta politica, il merito conta poco.
E così Bersani ha preferito glissare in questi giorni sull’ondata di opinioni dissenzienti che si è levata nel Pd (e che ha trovato spazio sul quotidiano Europa, diretto da Stefano Menichini, schierato per un secco no sui «demagogici quesiti» sull’acqua).
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