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Partigiani, palestinesi e abusivi: così cambiano le mode degli artisti schierati "dalla parte giusta"

Dalla "resistenza" contro il voto popolare alla difesa dei santuari dell'illegalità: così si usano le tragedie del mondo come volano per la propria identità

Immagine di repertorio
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Bisogna accettare una verità che troppo spesso si sottace: gli artisti, tutti, di qualunque tipo, vivono di consenso. È il loro pane quotidiano, è quello che li fa esistere e da cui dipende anche la loro arte, che permette loro di dire al mondo "ci sono anche io", quindi di farsi conoscere per quello che esprimono. La ricerca del consenso ha molte strade ed è umano che molti artisti, per dare una "spinta", ne cerchino a volte una facile, che fatalmente passa quasi sempre per la politica perché prende la pancia del Paese, va a toccare nervi scoperti che, 9 volte su 10, garantiscono all'artista visibilità. Se poi riescono anche a intercettare il tema di tendenza, inserendosi più o meno agilmente da quella che la massa considera la "parte giusta", a quel punto si ha l'allineamento di tutti i fattori perché l'artista si posizioni come maître à penser, acquisendo non solo visibilità e consenso, ma anche credibilità e legittimazione. Basta guardare quanto accaduto negli ultimi 3 anni, dal 2022 a oggi, per fare una fotografia di questo fenomeno, senza per forza andare troppo indietro nel tempo.

Il 2022 è stato l’anno del partigiano immaginario. Nel pieno della campagna elettorale, tra un tweet e una prima cinematografica, l’intero apparato culturale si è riscoperto improvvisamente pronto a salire in montagna. Un antifascismo di maniera contro il "pericolo fascista" che la sinistra parlamentare ha paventato davanti all'ipotesi, poi concretizzatasi, di una vittoria del centrodestra, che è stato assorbito dalla pancia del Paese e che è stato usato dagli artisti per il posizionamento. C'è stato perfino qualcuno tra gli artisti che, alla vittoria di Fratelli d'Italia e di Giorgia Meloni, ha annunciato: "Oggi inizia la resistenza". Ma nessuno l'ha vista arrivare. Esaurito il filone del regime alle porte, con solo qualche labile rigurgito all'occorrenza, dal 2023 si assiste all’invasione delle kefiah d’ordinanza. La complessità della storia mediorientale è stata ridotta a un accessorio di moda valido per ogni stagione, un marchio di fabbrica per chi deve dimostrare di essere parte di un gruppo di potere, anche se è minoranza, per quanto rumorosa. Siamo nel mezzo di una scia lunga di retorica pro Palestina che non ha prodotto un grammo di analisi politica, ma tonnellate di posizionamento morale a favore di smartphone e social network.

Il 2025 ha segnato invece il ritorno al romanticismo dell'illegalità domestica. L'attuale menù delle proteste, ora che l'anno è finito e può dirsi completo, regala la Flotilla, novella crociera della salvezza per chi cerca un posto al sole tra i notabili e la difesa d’ufficio dei santuari dell’occupazione abusiva. Lo sgombero del Leoncavallo o dell’Askatasuna non viene letto come un atto di banale legalità, ma come un sacrilegio culturale da chi invoca lo Stato di diritto a ogni piè sospinto, e si trasforma nel primo difensore dell’anarchia di comodo, purché confinata nei centri sociali dove il degrado viene spacciato per "avanguardia sociale", perché le Ztl non devono essere intaccate.

Cambiano gli slogan, cambiano i nemici, ma resta intatto il narcisismo di chi usa le tragedie del mondo e le periferie urbane come se fossero set di comodo: una recita a soggetto in cui l'unica cosa che conta non è la causa, ma il mantenimento della propria presunta superiorità etica.

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