Il prossimo 28 febbraio finirà la promozione dell’ingresso gratuito per il nuovo Museo del Novecento. Di lì in poi si riuscirà a capire l’impatto reale per il tanto agognato spazio pubblico dell’arte a Milano. Forse non ci saranno più le lunghe code all’ingresso di questi mesi, eppure scommettiamo sulla tenuta del museo ricavato nell’Arengario da Italo Rota. Aldilà del piacere di ammirare una lunga lista di capolavori italiani (si comincia con Il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo e si finisce con le «provocazioni» di Piero Manzoni, passando ovviamente per Boccioni e Fontana), la gente sente questa raccolta come il modo migliore per affermare la propria milanesità.
In un pomeriggio di un giorno feriale, dopo la mia brava fila, visitando il Museo in mezzo a un pubblico assai eterogeneo (molti gli studenti, le coppie, i pensionati), ho origliato la battuta di un signore rivolto alla moglie e visibilmente compiaciuto davanti a un dipinto futurista di Carlo Carrà: «vedi, questa è Milano». Affacciandomi poi alla vetrata con vertiginosa vista sulle guglie del Duomo, ho provato quello stesso senso di piacere di quando sei sulle scale del Pompidou a Parigi, ovvero sentirsi in una capitale europea, ed è davvero incoraggiante che nel nostro bistrattato Paese mai si siano aperti così tanti musei come negli ultimi due anni, da quando la crisi è conclamata e per inciso ci sarebbe un governo solo impegnato nei tagli.
Così l’ex Arengario va a formare una sorta di «Museum Mile» insieme a Palazzo Reale. Da una parte la collezione permanente civica, dall’altra le mostre temporanee concepite per offrire un’offerta piuttosto ampia. Perciò diventa possibile che i fan di Cattelan vadano a riscoprire Dalí e magari buttare un occhio all’antico. Basta poi attraversare Piazza del Duomo per riscoprire il Palazzo della Ragione, che fino a pochi anni fa era affittato a chiunque lo chiedesse e ora si sta caratterizzando come uno spazio specializzato nella fotografia (le mostre di Steve McCurry e Stanley Kubrick sono andate benissimo).
Non c’è niente da fare. Nonostante per decenni si sia registrata l’assenza di progettualità vera e propria e la latitanza delle istituzioni locali - Milano è ancora l’unica metropoli europea senza un museo pubblico d’arte contemporanea - alla fine è proprio la città meneghina la sola in Italia a contare davvero nel sistema internazionale. Rifiutando lo spreco assistito e parassitario (peraltro a senso unico, ovvero a sinistra) di Torino e il gigantismo con cui Roma sta tentando di prendersi il ruolo di capitale perduta, Milano punta ancora sulla fluidità e sulla vivacità che sono essenziali nel suo carattere. Nonostante il caro affitti, gli artisti tra mille sacrifici preferiscono ancora abitare nei pressi della Madunina.
Se c’è un posto dove «scendono» i curatori internazionali che selezionano chi invitare alle Biennali, questo è Milano. L’offerta delle gallerie private, peraltro, è amplissima e basta visitare in questi giorni Arte Fiera a Bologna per verificarne la quantità e la qualità. Se Brera resta il salotto del Novecento, la zona oltre Lambrate (via Ventura e dintorni) continua a offrire il meglio del contemporaneo d’avanguardia, sfruttando la tipologia degli spazi industriali e una certa propensione a inseguire la moda. Scendendo con la metro a Porta Genova e imboccando via Tortona si riscopre il fascino dell’underground stiloso, in particolare nelle settimane del design e del fashion. Intorno alla Fondazione Marconi, siamo in zona Buenos Ayres, proliferano nuove gallerie e spazi off. Milano non è mummificata sul proprio passato glorioso e anzi ha bisogno di mutare continuamente pelle; in questo ricorda in piccolo New York, con vere e proprie migrazioni di quartiere in quartiere degli spazi più in voga. Non c’è alcuna strategia particolare, basta il passa parola e le cose accadono.
Altro dato interessante è l’inesausto ricambio generazionale che si registra nell’arte. A ogni stagione si aprono realtà nuove con fisionomie sempre diverse, fino a formare un paesaggio del contemporaneo dinamico ed effervescente. Rispetto al passato si vende meno, colpito è soprattutto il mercato medio, quello dai 5 ai 50mia euro, eppure a giudicare dalla quantità di spazi inediti il flusso non sembra affatto arrestarsi, anzi.
Certo, su alcune cose c’è ancora da lavorare, soprattutto per ciò che riguarda il «contemporaneo istituzionalizzato», poiché la programmazione talora appare schizofrenica e senza un vero e proprio asset strategico. A esempio, la personale di Shirin Neshat a Palazzo Reale è una proposta in terza battuta per il pubblico italiano (Milano potrebbe giustamente aspirare a uno ius primae noctis) e la Besana, uno degli spazi più belli in città, avrebbe bisogno di definire un’identità precisa e un definitivo rilancio.
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