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"Adesso le spaccate le faccio solo per mio figlio"

Kristian Ghedina, il discesista più "pazzo" della storia dello sci italiano, è papà da cinque mesi. E fa da "padrino" ai Mondiali nella sua Cortina

"Adesso le spaccate le faccio solo per mio figlio"

Il «Ghedo» è un mondo. È l'istinto della libertà che non si può imbrigliare fra una porta rossa ed una blu; è lo stile di un atleta tanto inarrivabile, quanto alla mano. È il sorriso di un eterno ragazzo innamorato della velocità, ma anche delle sue montagne. Campione senza averne l'aria, Kristian Ghedina, classe 1969, è sciatore, pilota, coach, ora anche protagonista di un talent firmato Rai e Federsci, che ha coinvolto 16 sci club da tutta Italia, nella sua Cortina d'Ampezzo, dove, da oggi, vanno in scena i Mondiali di sci alpino.

Fra i più forti discesisti italiani, è rimasto proverbiale il suo feeling con gli sci: «Sceglieva lo ski man, bastava avere filo per tenere sul ghiaccio e mi fidavo: qualunque cosa mi mettesse sotto i piedi, io la facevo andare». Spesso meglio e più degli altri. Se potesse s'infilerebbe anche oggi al cancelletto di partenza. Natan permettendo, perché oggi la sua più bella gara è appena ricominciata. Ed è di quelle che durano una vita intera.

A 51 anni e con il primo figlio ha finalmente messo la testa a posto?

«Ho sempre avuto la testa a posto, perché questi dubbi?».

Perché certi suoi (s)consigli non si dimenticano: come nel 2005, in cima alla partenza della pista Stelvio di Bormio, appena finite le gare veloci dei Mondiali. Le punte degli sci inquadravano il campanile del paese, mille metri sotto, il cuore a mille. Lei dispensò il seguente suggerimento a chi aveva avuto l'ardire di seguirla: È meglio se non curvi, poi sparì tuffandosi nella vertigine di ghiaccio.

«Se ci parliamo ancora, ho avuto ragione, no? Non sempre curvare è una buona idea se non si hanno buone lamine sotto gli sci».

O se non ci si chiama Ghedina «Forse anche, ma non saprei». Che effetto fanno i primi 5 mesi da papà: è più duro far dormire il pupo o vincere una gara?

«Più duro non so, più lungo sì! E Natan è davvero la nostra, la mia, più bella vittoria, il coronamento di un sogno. Intanto mangia già come un discesista, sono bravo col biberon, e cresce a vista d'occhio».

Un figlio e la pandemia: una sfida, una speranza?

«Patrizia ed io in montagna siamo stati fortunati. Non riesco ad immaginare che cosa significhi vivere un periodo così teso in città, fra quattro mura».

Meno fortunata è, invece, la montagna ancora chiusa per virus: si sarebbe potuto fare diversamente?

«Sicuramente. Non discuto la gravità della situazione, ma si sarebbero dovute trovare da subito modalità per aprire gradualmente l'intero comparto. Sperimentando nuove tecnologie per numero chiuso o accesso limitato, avremmo dovuto far ripartire gli impianti. Lo sci alpino, la discesa, non sono il problema».

Il virus di questi mesi che cosa le sta insegnando?

«Ci insegna una pazienza che nemmeno un discesista su un tratto scorrevoleCi insegna a non dare nulla per scontato e ad apprezzare ciò che abbiamo».

La sua montagna è Cortina d'Ampezzo: in questi giorni ospita i Mondiali e lei ne è ambasciatore.

«Sono fiero ed orgoglioso che mi abbiano coinvolto. Per molti anni sono stato l'unico campione di Cortina. E in fondo non sono così vecchio, la gente si ricorda ancora di me!».

Quest'anno si gareggia senza pubblico: che cosa cambia per un atleta? Meno giornalisti, meno stress, il tifo però

«In gara sei concentrato, però la cornice mancherà: è vero, c'è chi si distrae, ma anche chi si carica con il boato del pubblico. Io penso che riempia l'aria e sia fondamentale».

Sulla nuova pista «Vertigine», disegnata per gli uomini, si sarebbe trovato bene, magari sul salto che porta il suo nome?

«Uno dei principali lasciti dei Mondiali, saranno alcune nuove, bellissime, piste. Quella maschile è un patchwork che collega tracciati differenti, già esistenti: ha una linea molto ripida e tecnica, ma anche di scorrimento. Ci saranno dai 3 ai 6 salti: ho chiesto che il mio salto fosse bello lungo. Sì, è un pendio completo su cui mi sarebbe piaciuto gareggiare».

Lei ha, invece, vinto, sulla pista Olympia delle Tofane, quella dove, da sempre, gareggiano le donne: prima vittoria in coppa del Mondo, nel 1990. Fu destino vincere in casa?

«Semmai l'opposto. Né io né l'Olympia dovevamo incontrarci. Era la prima stagione in cui andavo bene, ma ero caduto sulla Streif di Kitzbuhel. Mentre ero convalescente, Cortina si candida per recuperare, all'ultimo, una tappa maschile cancellata. A quel punto fui talmente insistente con i medici finché li costrinsi a lasciarmi correre. Ho vinto così la prima gara di Coppa, 14 giorni dopo essermi incrinato una serie di costole. Dolore, adrenalina e gioia pazzesca».

C'è un'altra pista italiana cui lei è affezionato: è tuttora l'ultimo vincitore azzurro, e in una gara le capitò di competere anche con un capriolo: come andò sulla Saslong di val Gardena nel 2004?

«Almeno il capriolo l'ho battuto e non ho avuto paura: in realtà, a volte, in allenamento succede che qualche animale entri nel tracciato. È più probabile in gigante o slalom, meno in discesa, dove ci sono più reti e protezioni ad isolare e circoscrivere la pista. Quella volta spuntò alla mia sinistra, nello schuss finale: ho capito che sarei stato più veloce e che lui non avrebbe attraversato e così è andata bene, un po' come superare uno sciatore in pista. Poi la gara fu fermata per il vento».

Sulla Streif, di Kitzbhuel, un po' il Maracanà dello sci, ha compiuto un'altra prodezza: racconti.

«Vuole quella di quando ho vinto, primo italiano, nel 1998 o quella della spaccata, sempre nel 2004?».

Prima la spaccata, poi la vittoria.

«Era gennaio, avevo scommesso una pizza e una birra con mio cugino e l'ho vinta».

Deve essere buona una pizza per un'acrobazia a 100 all'ora dopo quasi due minuti di gara sulla pista più difficile del mondo.

«Sì, perché sa di vittoria. In realtà si vide in tv, ma nessuno riuscì a fare la foto: adesso i reporter si piazzano anche li, in vista dell'ultimo salto, allora non ce n'erano. Ho chiesto, ma inutilmente, il fotogramma a tutti, anche ad Orf, l'attenta tv austriaca. Troppo sgranato».

Senza prove

«L'ho rifatta! In allenamento l'anno dopo: così ho la foto ma del bis. E poi l'ho rifatta spesso sui salti, anche a Cortina».

Qualcuno disse che lei sarebbe stato ricordato più per quei due exploit spaccata e capriolo - che per il suo palmares.

«La spaccata se la ricordano tutti, in effetti. E pensare che uno si allena una vita!»

Allora celebriamo la sua vittoria sulla Streif del 1998: primo azzurro a vincere a Kitz che, per uno sciatore, vale un'Olimpiade: la ripaga dei due sesti posti di Albertville 1992 e Nagano 1998?

«Sì, posso confermare. Si dice sempre che ai Giochi contino solo le medaglie. Kitz, invece, è il tempio dello sci: ci sono grandi campioni che chiudono, con un sacco di premi, ma senza aver mai vinto sulla Streif. Io sono stato il primo azzurro, ora ha vinto anche Dominik Paris».

Paris le ha strappato di recente anche il record di discesista italiano più vincente: durava da anni, quasi come i primati di Mennea

«Il mio record è durato molto meno. Io sono a 13 vittorie e 20 podi. Lui è già a 18 vittorie, ma soprattutto avrà sempre 20 anni meno! Però».

Però?

«Se potessi, fra tutti i campioni di oggi, sarebbe quello che vorrei sfidare. Parla poco e va forte».

Veniamo ai campioni che ha battuto davvero: Hermann Maier, Luc Alphand e Didier Cuche. Tanti per conquistare 3 medaglie mondiali. Che cosa ricorda?

«A Saalbach nel 1991 l'argento in Combinata fu inatteso: dovevo far tre gare. In discesa uscii, unica volta nella vita; in superG vado così così. Restava la Combinata: in discesa do un secondo a tutti, ma lo slalom non è mai stato il piatto forte. Lo rinviarono per maltempo e così ho passato due giorni solo a fare pali, come una bestia, mai così tanti in vita mia».

A Sierra Nevada nel 1996 un altro argento, ma in discesa

«La medaglia forse più bella, dietro a Patrick Ortlieb e davanti al mito ed amico Luc Alphand: di sicuro fu la medaglia più divertente. L'atmosfera spagnola è imbattibile: dividevo la camera con Alessandro Fattori, emiliano doc. Ci svegliavamo alle 6 e fuori c'era ancora gente in discoteca. Ci facevamo un giro prima di andare a colazione, due salti anche per lustrarci gli occhi, poi salivamo in pista ad allenarci».

Come al Sestriere, l'anno dopo.

«Bronzo in discesa, a casa, il risultato della maturità dietro a due big come Bruno Kernen e Lasse Kjuss». Lei appartiene all'età dell'oro Tomba-CompagnoniGhedinaKostner: che cosa manca oggi? Campioni ne abbiamo, ma voi sembravate più liberi, istintivi. «Oggi forse si pensa di più a comunicare sui social quello che si fa, ma si vive più individualmente. Ai miei tempi c'era più gruppo».

Nella sua vita ha avuto dolori personali, incidenti, uno grave d'auto, eppure ha sempre reagito.

«Ho perso presto mia madre. Mio padre, pur permettendomi di fare sport, voleva che studiassi. Mi diceva: Di campione ne nasce uno su un milione. Ero un terremoto ma di lui avevo paura. A scuola facevo il mio, però sognavo lo sport e quando arrivarono i risultati, mi disse che dovevo farlo seriamente. Se non rientravo alle 10 la sera erano guai. All'alba mi svegliava: Vuoi fare il campione? Alzati e vai ad allenarti. Sì, lo sport è sempre stato la via, un patto con papà».

Dopo lo sci, le quattro ruote.

«In realtà, io avrei fatto il pilota da subito: adoro i motori, da ragazzo ero sempre in garage, le mani sporche di grasso a trafficare. Dopo lo sci, di nuovo, il problema fu convincere mio padre, che per tutta la gioventù mi aveva vietato perfino la moto. Anche quando avrei potuto pagarmela da solo».

Ormai lei era il campione

«Infatti: iniziai di nascosto. Andai a Milano per la conferenza stampa di addio allo sci. Poi dovevo proseguire per Magny Cours per gareggiare l'indomani in F3000. Gli telefonai lungo la strada: Papà, stasera non torno, perché domani corro in macchina».

Che cosa le piaceva di quel tipo di velocità?

«Il brivido è lo stesso, ma, rispetto allo sci, in auto c'è molto più stress psicologico: la gara non dura pochi minuti e non sei da solo, ma devi guardarti anche dagli altri! Quando scendevo ero sempre stravolto».

Lei ha avuto anche una terza manche come allenatore. Le piacerebbe provare con gli azzurri?

«Ma per ora non mi hanno chiamato. Ho avuto l'onore con il croato Ivica Kostelic: era già fortissimo in slalom, ma per consolidarsi nel ranking generale e in Combinata aveva bisogno anche di velocità. Mi chiamò Ante, suo padre, un uomo d'altri tempi, che aveva cresciuto anche la sorella Janica, portando entrambi a vincere la coppa del mondo».

Insegnare, dare l'esempio le è piaciuto. Dopo i 50 si diventa un po' padri nobili anche nello sci?

«Oggi cerco di fare lo stesso con la scuola di sci M'Over che abbiamo creato a Cortina con Deborah Compagnoni e i campioni di sci nordico Pietro Piller Cottrer e di snowboard Giacomo Kratter: promuoviamo la montagna, dal punto di vista sportivo, ma anche naturalistico, con lezioni, corsi e giornate con i campioni».

Se dovesse allenare il Ghedo degli anni d'oro che cosa gli direbbe?

«Che oggi non basta più sciare: fuori pista bisogna sapersi dosare fra sponsor e marketing, soprattutto pensando al dopo, alla vita dopo l'agonismo.

Però in pista c'è solo una legge: andare forte, più degli altri».

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