«Gli afghani lo chiamavano Lorenzo Jan l’amico che risolveva i guai della gente»

«Gli afghani lo chiamavano Lorenzo Jan l’amico che risolveva i guai della gente»

«Gli afghani lo chiamavano Lorenzo Jan, un appellativo che nella loro lingua e costume significa amico fraterno», comincia così il racconto al Giornale di un agente dei nostri servizi che ha lavorato fianco a fianco con il maresciallo capo Lorenzo D’Auria deceduto ieri mattina. «Del pericolo era perfettamente consapevole, come tutti noi, ma la missione in Afghanistan per lui aveva qualcosa di speciale. Fin dall’inizio si è impegnato al massimo, con uno slancio e dedizione che sono serviti a incrementare i contatti a 360 gradi», racconta l’amico. «Lorenzo doveva tornare a casa a fine mese e aveva già rischiato in altre occasioni, come durante gli scontri fra le forze della coalizione e i talebani a fine aprile inizio maggio», spiega l’altro agente del Sismi. I tagliagole islamici utilizzavano i villaggi e la popolazione come scudi umani, ma non tutti parteggiavano per i seguaci di mullah Omar. «Non fu facile, ma Lorenzo si fece in quattro per far distinguere gli innocenti dai nemici», sottolinea l’amico della prima linea. Gli americani hanno il grilletto facile e spesso i bombardamenti colpiscono anche i civili facendo precipitare ulteriormente la situazione. «Lorenzo Jan» veniva chiamato in soccorso dagli anziani dei villaggi, come se fosse una specie di Lawrence d’Arabia all’italiana. «Lo interpellavano anche per risolvere diatribe locali, perché si era fatto ben volere e rappresentava un punto di riferimento», ricorda l’amico e collega. Si era fatto crescere la barba come segno di mascolinità nel rispetto delle tradizioni locali e girava sempre in borghese indossando anche la tunica e i pantaloni a sbuffo. «Spesso usava gli abiti locali e gli stessi afghani non capivano che fosse uno straniero fino all’ultimo momento - racconta l’agente dei servizi -. Per non parlare dei soldati italiani che lo scambiavano per un afghano».
Il maresciallo capo Lorenzo D’Auria avrebbe compiuto 33 anni martedì prossimo, ma la divisa l’ha sempre avuta nel cuore. Nel 1994, dopo il diploma come perito tecnico commerciale, si arruola nel 187° Reggimento paracadutisti Folgore con sede a Livorno. Le sue note parlano chiaro: corso di direttore di lancio, sopravvivenza ai climi invernali, sottufficiale tutto d’un pezzo. Partecipa alle missioni in Bosnia, Albania e Kosovo diventando ben presto un veterano degli interventi militari all’estero. In Afghanistan sbarca la prima volta nel 2003, durante la difficile missione Nibbio a Khost, una zona infestata da talebani vicina al confine pakistano. D’Auria si fa le ossa con la cellula che raccoglie informazioni per il contingente. «Anche a Khost era sempre davanti ai suoi uomini», ricorda l’agente del Sismi. Nel 2005, quando a Nassirya sono già scoppiate le battaglie dei ponti contro i miliziani sciiti, viene mandato in Irak. Nel Sismi entra nel 2006 e viene assegnato alla sezione che si occupa di Asia centrale e Sud Est asiatico. «Intelligente, riservato e schivo», si legge nelle sue note. «Per Lorenzo era una passione che aspettava da tempo, con ansia. Poi quando l’hanno chiamato sembrava rinato», sottolinea l’amico del Sismi.
Ritorna in Afghanistan il 3 aprile scorso «in qualità di operatore Humint nella città di Herat a supporto delle attività del contingente militare italiano», scrivono nella sua scheda biografica. In pratica fa lo 007 vecchia maniera, sul terreno, con un particolare attenzione anche agli aiuti. «A contatto con le tribù locali si era dato molto da fare per sostenere le attività di ricostruzione del contingente», ma non ha mai perso di vista l’obiettivo primario della sua missione. Nelle sue note si legge che D’Auria amplia «considerevolmente la struttura delle rete informativa nell’intera provincia (di Herat nda) e di alcuni distretti ritenuti fra i più instabili della regione». Intreccia relazioni sia con le cariche istituzionali afghane, che con gli elementi tribali più conservatori «contribuendo alla sicurezza dei Contingenti nazionali schierati nel settore occidentale» dell’Afghanistan.
A casa ha lasciato tre bambini piccoli, l’ultimo, Luca, nato lo scorso luglio. Con la sua compagna, Francesca, conosciuta a Livorno, si è sposato in punto di morte. «La famiglia era sempre nei suoi pensieri.

Quando è rientrato in Italia per il battesimo dell’ultimogenito non si era dimenticato di portare dei giocattoli per gli altri due - racconta l’amico -. Con Francesca era amore vero. Lei è una donna di una forza d’animo e di un coraggio ammirevoli».

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