Roma - A incrinare l’accondiscendenza che aveva accolto la relazione del ministro degli Esteri, quasi il verbo di Massimo D’Alema fosse scontato e dovuto, ha provveduto Gianfranco Fini a sorpresa. Il leader di An non doveva prendere la parola, ieri alla Camera. Era in programma Ignazio La Russa, così come gli altri capigruppo. S’annunciava un programma scontato, la linea della «responsabilità e massima coesione» aveva non solo svuotato i banchi di Montecitorio ma tranquillizzato D’Alema, che con tono notarile stava forse esagerando nell’autoassoluzione governativa. In Fini dev’esser scattato l’orgoglio dell’ex ministro degli Esteri, che conosce gli uomini della diplomazia e la realtà afghana, dunque non può far soverchi sconti. Tant’è che è andato giù di piatto.
L’intervento di Fini ha risvegliato l’aula sonnacchiosa. «Non vi accusiamo di non avere fatto tutto quello che era in vostro potere per salvare gli ostaggi, ma vi accusiamo di omissioni», ha esordito il presidente di An immergendo il dito nella piaga: «Se come a noi risulta Karzai ha detto va bene, perché Prodi ha vagheggiato l'ipotesi del ritiro dei nostri soldati, poi non bisogna lamentarsi se subito dopo il presidente afghano afferma la linea della fermezza. Una fermezza che si esprime nell'arresto di Hanefi che risulta, come sanno tutti coloro che conoscono l'Afghanistan, l'anello di congiunzione tra Emergency e i talebani». Nella relazione di D’Alema «ci sono state reticenze e omissioni», perché è vero che «la scelta sulla liberazione di terroristi per uno scambio» poteva esser presa soltanto da Kabul, ma quel che D’Alema non dice è che «le autorità afghane non erano d’accordo a liberare i prigionieri talebani, il governo Karzai non era disponibile ad accogliere le richieste dei terroristi talebani presentate tramite Gino Strada e tramite il nostro ambasciatore. Karzai infatti, lo ha detto chiaramente: ho subito pressioni dal presidente Prodi, ho subito pressioni da parte di un governo amico». Il sasso ha incrinato lo stagno del consenso e suscitato le ire di D’Alema e di Prodi, che gli hanno rinfacciato «accuse false e offensive».
Fini ha poi spiegato ai giornalisti di aver deciso di intervenire «perché D’Alema non può dire che le autorità afghane erano consenzienti alla trattativa coi talebani», ed ha ribadito: «Karzai era contrario, è stato pressato e convinto da Romano Prodi, il quale mi risulta che lo ha chiamato per fargli presenti i rischi, minacciandogli addirittura un nostro ritiro dall’Afghanistan». Più tardi, dopo aver letto le reazioni di D’Alema e Prodi, Fini ha rilanciato con una nota tutt’altro che conciliante: «Anziché offendersi e insultarmi, Prodi e D’Alema farebbero meglio a rileggersi le dichiarazioni di Karzai del 6 aprile, riportate dalle agenzie e dai giornali di mezzo mondo». Già, quelle in cui il premier afghano spiega che il rilascio dei tagliagole «è stato un fatto assolutamente eccezionale, speciale, unico, che non si ripeterà mai più», ma non poteva fare altro perché «il premier Prodi ha telefonato con insistenza più volte, mi ha spiegato che il suo governo era in difficoltà e rischiava di cadere, era in forse la presenza di 1.800 soldati italiani nel nostro paese». Rivelazioni della stampa italiana? No, Fini elenca «gli stessi concetti attribuiti a Karzai» da una decina di giornali stranieri, dal Figaro al Washington Post sino al Christian Science Monitor, per concludere: «A questo punto o Karzai ha mentito, o tutta la stampa internazionale ne ha travisato le parole, oppure Prodi in privato ha detto al leader afghano una cosa e D’Alema in Parlamento ne ha detta un’altra».
Uno scontro sempre più acceso ormai.
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