Sull’Afghanistan il ministro per lo Sviluppo economico, Paolo Romani, non ha peli sulla lingua. La sfida si vince grazie a sicurezza e sviluppo con grandi progetti: dall’ampliamento dell’aeroporto di Herat a strade, ferrovie e un gasdotto; ma pure luce, acqua e scuole nei villaggi più remoti.
In Afghanistan non basta la forza delle armi. Come facciamo a risollevare il paese per portarlo fuori da un lungo tunnel di guerra?
«Vale lo slogan condiviso dal presidente Hamid Karzai e dai suoi ministri, che ho incontrato nelle tre visite in Afghanistan, l’ultima pochi giorni fa. Lo sviluppo avviene in condizioni di sicurezza e la sicurezza può essere garantita anche dallo sviluppo».
Quali sono i progetti più importanti?
«Il nuovo aeroporto civile di Herat, la strada verso Chest i Sharif (all’estremo orientale della provincia nda) e quella che bypasserà il capoluogo per rendere più scorrevole il traffico dei camion provenienti dall’Iran. Ad Herat sarà realizzata la piattaforma logistica per collegare aeroporto a polo industriale e ferrovia da ovest».
Il parà tornato a casa ieri avvolto nel Tricolore è caduto a Bala Murghab, proprio per allargare la «bolla di sicurezza» nell’area, che renderà possibile il grande progetto di un gasdotto. Ci spiega di cosa si tratta?
«A Bala Murghab il cocktail etnico locale è particolarmente ostico. Per questo motivo in molti villaggi ci sono gli insorti e qualche contrabbandiere e produttore di oppio. Il gasdotto, che si chiama Tapi, oggetto lo scorso dicembre di un accordo fra il vicino Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e India è uno dei grandi progetti infrastrutturali del governo afghano, che passerà proprio da quelle parti. Sono previste due centrali termo elettriche lungo il percorso del gasdotto, a cui le aziende italiane sono interessate. Bala Murghab è un punto cruciale perché oltre al gasdotto vi dovrebbe passare una ferrovia per collegare il Turkmenistan con Herat. Non a caso la Folgore negli ultimi mesi ha allargato di molto la “bolla di sicurezza”. Senza strade, binari o collegamenti aerei è difficile che possa esserci sviluppo. Faccio un esempio: la frutta ad Herat costa 3 afghanì (la moneta locale nda), a Kabul, che è dall’altra parte del paese, 170».
Quali saranno le ricadute per gli afghani e per le nostre aziende?
«Il prestito della Cooperazione italiana al governo di Kabul è di 150 milioni di euro e non sono pochi. Con questi soldi contiamo di costruire l’aeroporto civile e le due strade di cui parlavo prima. La società capocommessa sarà italiana, ma daremo lavoro a decine di migliaia di afghani. E non solo manovalanza. Oggi attorno al piccolo polo industriale di Herat ruotano già 12mila afghani. Quando lo raddoppieremo verrà triplicata l’offerta occupazionale. Tutto ciò che porta lavoro combatte i talebani, tanto quanto le armi».
Quali sono le aziende italiane interessate?
«Nelle tre visite di quest’anno sono state coinvolte Eni, Enel, la Trevi, società agroalimentari, aziende del freddo, ma ci sono interessi anche per il marmo. L’Afghanistan è una specie di gigantesca miniera non ancora sfruttata. Stiamo parlando di risorse energetiche come petrolio o gas, ma pure oro, ferro, rame e litio. L’Ovest sotto nostro controllo è un terreno vergine, dove ci sarebbero molte risorse da verificare ed esplorare».
E poi ci sono piccoli interventi simbolici...
«Gli afghani mi hanno chiesto di illuminare lo stadio di Herat dove ci sono ben 22 squadre di calcio. Dal 15 di ottobre, con la sponsorizzazione di Terna ed Enel, daremo luce al campionato».
Vinceremo conquistando i cuori e le menti degli afghani o riempiendo loro la pancia?
«I nostri 4.200 soldati sono in prima linea e combattono un nemico, ma nell’Afghanistan occidentale anche grazie allo sviluppo stiamo già conquistando i cuori e le menti degli afghani».
Perché ogni volta che rientra un militare avvolto nel tricolore si apre la litania del ritiro...
«Il sistema politico per certi versi è ancora inadeguato per affrontare queste situazioni. Invece le risposte dei familiari dei caduti sono sempre un esempio di grande dignità. Sarebbe stato impensabile fino a dieci anni fa affrontare un conflitto di questo tipo dove abbiamo perso 41 uomini. Aumenta, però, la consapevolezza che è una guerra non fine a se stessa, ma per raggiungere l'obiettivo della pace».
Molta gente comune, però, dice: «Non è una missione di pace, torniamo a casa. Anziché alla pancia degli italiani, pensiamo a quella degli afghani». Dobbiamo tenere duro o smobilitare?
«Dobbiamo tenere duro perché laggiù difendiamo anche la nostra libertà e sicurezza colpendo il terrorismo dove è nato».
Quanto ci vorrà per tornare a casa?
«È terribile fare la guerra con il cronometro in mano. Abbiamo davanti altri tre anni, ma l’impressione è che la maggioranza sia dalla nostra parte.
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