Acireale - Nella bara di noce avvolta nel tricolore avrebbe potuto esserci lui, già quattro mesi fa. Lui è il vicesovrintendente Oreste Corsi, 45 anni, due figli, poliziotto in forza al commissariato di Acireale, attirato in curva nord con la scusa di un tifoso colpito da malore (non era vero) e qui linciato per quattro lunghissimi minuti. Calci, sputi, pugni, bastonate, coltellate, schiaffi, cinghiate. Settanta contro uno. Nel bel mezzo della partita Catania-Messina del 23 settembre scorso, Oreste s’è ritrovato solo, ferito, costole incrinate, tagli ovunque. È rotolato rovinosamente dagli spalti, rimbalzato tra pedate e colpi proibiti, nemmeno lui sa come ha fatto a salvarsi: «Pensavo di essere già morto quando per la disperazione ho dato fondo a tutte le mie energie, ho allungato la mano alla fondina ma la pistola non riuscivo a estrarla, non ce la facevo, ero a pezzi. Quel gesto però mi ha salvato, i vigliacchi sono indietreggiati e i colleghi mi hanno portato fuori». Supportato dai colleghi sindacalisti dell’Ugl, Angelo Butera e Edoardo Curti, il miracolato di Acireale prende coraggio e racconta quel viaggio all’inferno.
Com’è andata davvero quella sera di settembre?
«Ero di servizio di ordine pubblico quando a un certo punto mi si chiede un intervento a supporto di alcuni barellieri che erano andati in curva nord, subito dopo l’entrata in campo dei calciatori del Catania, perché un tifoso s'era sentito male. Erano le 20.25. Un medico dell’ufficio sanitario insisteva ed io e il collega Pietro Barbagallo, siamo entrati dalla porta blindata a bordo campo».
Una volta dentro la curva cosa è successo?
«Appena varcata la soglia, dopo una ventina di metri, c’è venuto incontro un barelliere e ci ha fatto segno di andarcene subito. Prima con gli occhi, poi con la mano. Quindi ha sussurrato “andatevene subito, im-me-dia-ta-me-nte”. A quel punto abbiamo capito, eravamo caduti in un’imboscata. Il collega è riuscito a uscire appena in tempo, io non ce l’ho fatta perché mi ha raggiunto in faccia una cinghiata. Un colpo violentissimo, ho barcollato, poi un pugno e due calci. Sono crollato a terra, e da lì in poi, giuro, mi hanno massacrato. Saranno stati cinquanta, sessanta, forse più. Ho cercato di fuggire verso la porta, ma la “maschera” che aveva le chiavi mi aveva chiuso dentro. Quel maledetto era d’accordo con gli ultrà. Mi volevano ammazzare, ero con le spalle al muro. Continuavano a tirarmi calci, stavo morendo quando ho pensato a mia moglie e ai miei figli. Così mi sono fatto forza ed ho provato a tirare fuori la pistola per spaventarli».
Era pronto a sparare?
«Sì, in aria ovviamente. Avevo il braccio distrutto, non mi reggevo in piedi. Ma quando hanno visto che allungavo la mano all'arma sono indietreggiati scappando in ogni direzione».
Alla fine a salvarla sono stati i suoi colleghi...
«Non finirò mai di ringraziarli. Hanno visto qualcosa che non andava e si sono precipitati ma non riuscivano a entrare perché quel bastardo (lo steward-maschera, ndr) non si trovava. Alla fine sono riusciti a estrarmi vivo. Ecco, è andata così. Sa, è tutto uno schifo. Prenda l’inchiesta: gli aggressori sono liberi e la “maschera” d’accordo con gli ultrà nessuno l’ha mai interrogata. Per non dire della magistratura: non ha sentito mai il bisogno di ascoltarmi quando avrei potuto contribuire a riconoscere gli aggressori. Bah...».
È andato al funerale del suo collega?
«Non amo le passerelle di chi solo oggi si dice vicino alla polizia.
Gian Marco Chiocci
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