Agenti feriti e un asilo distrutto per festeggiare il trionfo thrilling

Tafferugli tra polizia e tifosi interisti giunti a Parma: vetri rotti, alberi divelti e lancio di bottigliette. Ma la maggioranza del popolo nerazzurro si emoziona sotto la pioggia: «Un campionato che ne vale tre»

nostro inviato a Parma
Qualche schiaffone tra opposte tifoserie un paio d’ore prima del calcio d’inizio, come si dice. Giusto per tenersi svegli e tonici. E per onorare la tradizione. Ma niente di più. Questo, sulle prime, era parso il bilancio dei tafferugli scoppiati intorno al Tardini verso le 13.30. Poi si scopre che un poliziotto di 28 anni è stato colpito all’addome da un allegro lancio di bottigliette d’acqua (20 giorni di prognosi), che un altro è rimasto leggermente ferito alla mano (dieci giorni di cerotti) e che «per festeggiare», a fine partita, i tifosi dell’Inter hanno simpaticamente spaccato un po’ di finestre della scuola materna sotto le cui tettoie avevano trovato riparo dalla pioggia e divelto, già che c’erano, e sempre «per festeggiare», alcuni alberelli che contornavano l’edificio scolastico.
Marta e Federica però non lo sanno. Non sanno mai niente, le groopies al seguito. I loro ganzi sono sempre ragazzi a posto. Qualche canna, qualche birretta, un po’ di casino, che vuoi che sia? Così ora, mentre vien giù a secchiate e loro sono sotto la tettoia del «Tacco’s food», che esita porchetta e caffè bollente a tutto vapore, protestano. «Ha cominciato la polizia. Noi cantavamo e loro ci hanno caricati». C’è un tanghero, accanto a loro, che vuol sapere anche il nome del cronista che va in giro facendo domande. Ai ragazzi dell’Inter - facce accese, i cervelli un po’ meno - i cronisti non piacciono. «Raccontate solo cazzate», bofonchia con la lingua già impastata di birra il tanghero.
Insomma, poteva andare peggio. Per esempio, l’Inter poteva perdere. E anche qui saremmo stati nella tradizione. I primi sessantuno minuti, per contare solo quelli di gioco, sembravano infatti l’introibo a un’altra giornata pensata dal demonio. Sessantuno minuti durante i quali, se ti avvicinavi al cuore di uno qualsiasi degli oltre duemila interisti accalcati davanti al Tardini, avresti sentito le note agghiaccianti che contrappuntano la colonna sonora di «Psycho». Facce incavate, il bianco degli occhi al cielo, i cuori stretti in una morsa di ferro, le più atroci premonizioni sulla fronte degli irriducibili. Sessantuno minuti di miserere nobis, finché, al fatale sessantaduesimo, dal Cielo grifagno epperò compassionevole, giunge un segno benigno. Segna Ibra. Ed è come se il nero mantello della Sfiga, che fino a quel momento aveva aleggiato sullo stadio, si disancorasse dalla verticale dei gementi per fuggirsene via, confuso tra le nuvole nere che si rincorrono come incubi verso l’Appennino.
Piove in modo dissennato. Le strade e i marciapiedi intorno allo stadio sono paludi, ma giuro di aver visto gente cadere in ginocchio e ringraziare l’Altissimo poggiando la fronte per terra, in tre dita d’acqua, come fa il Papa quando scende dall’aeroplano in terra straniera. Partono i primi petardi e i fumogeni, e c’è gente che si abbraccia e piange e ride, e salta come un tarantolato intonando insieme con gli altri l’inno della fede nerazzurra: «Tutto il mondo viaggiare, sostenendo l’F.C. Internazionale. Anche se domani andiamo a lavorare, siamo sempre qui al tuo fianco per cantare».
Al 79’ la scena si ripete, e la nebbia dei fumogeni è così fitta e le nuvole così basse che le urla sembrano venire dritte da un veliero fantasma perso da qualche parte qui davanti, nel mare della Felicità.
Davide, 23 anni, può uscire finalmente dalla trance in cui è sprofondato appena ha sentito il fischio d’inizio. Se ne stava rattrappito sotto l’ombrellone di un chiosco piazzato all’ingresso del parco pubblico che lambisce lo stadio, lontano da tutto e da tutti. Niente radiolina all’orecchio. «Non ascolto niente, se no sto male», mi aveva detto in un sospiro al quindicesimo del primo tempo quando gli avevo domandato come mai si fosse isolato perfino dalla storia. Alla fine, anche lui in ginocchio, come Rosario, che è di Gela, ringrazieranno lo spirito di Facchetti e dell’avvocato Prisco, buonanime.

«Uno scudetto che ne vale tre - mormora Davide, di rientro dalla trance -. Due anni fa, quando penalizzarono la Juve, dissero che lo avevamo rubato. L’anno scorso, visto che la Juve non c’era, dissero che non valeva. Voglio vedere ora».

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