Matteo Renzi e la sua eterogenea maggioranza insistono: vogliono portare a termine la riforma della Rai, di cui ignoriamo i contenuti. Ma abbiamo un timore: che la pezza sia peggiore del buco. Il nostro pessimismo è frutto di pregiudizio fondato, tuttavia, sull'esperienza. Senza contare che, stando ai si dice, l'azienda passerebbe sotto il controllo del governo. Non sarebbe una bella cosa. Sappiamo, per motivi di età, che l'ex monopolio è sempre stato dominio dei partiti, quindi non desta stupore il fatto che possa continuare ad esserlo; semmai preoccupa la prospettiva che i prossimi padroni siano soltanto gli amici del premier.
Un tempo, la lottizzazione avveniva alla luce del sole; evitando ipocrisie, i signori del Palazzo si spartivano il potere televisivo in forma ufficiale. La prima rete era rigorosamente democristiana; la seconda, socialista e, per accontentare i comunisti a digiuno, si inventò la terza che divenne una sorta di dépendance di Botteghe Oscure. Diciamo con una forzatura che il sistema si giovava della sorveglianza del Parlamento, il quale, per non fare torto ad alcuno aveva adottato un manuale, detto Cencelli, che regolava le assunzioni clientelari e gli avanzamenti di carriera in rapporto alle dimensioni dei vari partiti.
Enzo Biagi usava ripetere, scherzando ma non troppo, che il meccanismo funzionava così: "La Rai, quando si tratta di incrementare gli organici giornalistici, recluta 5 raccomandati dalla Dc, 3 raccomandati dal Psi e 2 dal Pci; se poi avanza un posto, convoca un collega bravo". Semplificazione perfetta.
Nel corso degli anni la questione si è complicata anche per effetto degli stravolgimenti politici. Tangentopoli ha cambiato le carte in tavola, e la Seconda Repubblica ha inaugurato una stagione peggiore, più confusa, della precedente. I vecchi punti di riferimento sono saltati: la Dc è morta e il Psi è morto. Anche il Pci è morto, però è resuscitato sotto mentite spoglie. Cosicché il manuale Cencelli è stato archiviato, formalmente, ma in pratica i suoi principi sono ancora validi. Nel senso che la Rai seguita ad essere un campo arato dai signori politici, i quali si scannano per conquistare una zolla e seminarvi la loro malapianta, ma lo fanno nascondendo la zappa. Millantano verginità, quando nessuno di essi l'ha mai avuta, si imbrogliano a vicenda.
Hanno un imperativo solo: fottere gli avversari, e ci riescono alla grande. Con un'eccezione: il Pci, pur essendo defunto, non ha ceduto un centimetro del terreno in cui è sepolto. Raitre non ha smesso un attimo di essere il cimitero dei compagni, le cui anime inquiete si stringono a coorte in difesa dei propri privilegi televisivi.
Mentre Raiuno è ambita da tutti e divisa in mille orticelli che, di volta in volta, vengono occupati da questo o quel partito; mentre Raidue è oggetto di mille desideri e soggetta a mutare padrone in base al vento che gira, Raitre è stabilmente un feudo inattaccabile della sinistra, inaccessibile a chi non sia rosso almeno di vergogna.
In essa non ha diritto di cittadinanza un giornalista non omogeneo al progetto (misterioso) dei progressisti. I quali odiano la proprietà privata, oggi quanto mezzo secolo fa, però considerano quella pubblica di loro esclusiva pertinenza. E il bello, si fa per dire, è che nessuno osa toccargliela.
Prendiamo Agorà . Non è un brutto programma, anzi. Ma è talmente di sinistra che spesso va fuori strada quale automobilista alle prime armi. Se gli togli Marcello Sorgi, commentatore politico di vaglia, Agorà è come un cappello degli alpini cui hai levato la penna nera: un berretto ridicolo. Matteo Renzi di già che vuole riformare l'azienda, non si limiti ad espropriare la rete principale: liberi anche la terza dalle falci e dai martelli arrugginiti.
Preferibilmente: venda la Rai a chi ha i soldi per comprarla e utilizzi il ricavato allo scopo di diminuire il debito. Se non altro, non pagheremo più il canone onde retribuire 13mila dipendenti utilizzati per annoiare gli utenti.
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