nostro inviato a Columbus (Ohio)
C’è chi ha votato in un garage o nella palestra di una chiesa o nell’atrio di un centro culturale. Persino a «Villa Milano», la sede di una società che a Columbus (Ohio) organizza convegni e banchetti. In America basta disporre di una sala sufficientemente ampia per ospitare un seggio. E infatti molte scuole ieri sono rimaste aperte.
Una democrazia partecipativa che quest’anno è riuscita a evitare il caos di quattro anni fa. Code? Sì, ma sopportabili. Mezz’ora, quaranta minuti, solo occasionalmente oltre un’ora, più che altro al mattino o nel tardo pomeriggio, prima di andare al lavoro o subito dopo, sperando nella compiacenza del proprio boss. Alcune società hanno preferito regalare mezza giornata di ferie ai propri dipendenti, altre hanno chiuso un occhio per chi si è presentato in ritardo o ha chiesto di uscire in anticipo.
Come biasimarli? Una volta entrati nella cabina elettorale hanno dovuto impiegare almeno dieci minuti per fare il proprio dovere.
Non si sceglie solo per il presidente. John Armour, volontario in un seggio istituito nella Chiesa ortodossa di Columbus, mi ha mostrato la scheda elettorale: è composta di sei pagine. Gli elettori della contea di Franklin County devono eleggere anche il procuratore pubblico, un deputato per la Camera a Washington, uno per il Congresso dello Stato, una decina di funzionari pubblici, dallo sceriffo al tesoriere, e votare per tredici referendum. Usando la matita o toccando lo schermo a pressione di una cabina elettronica, tipo bancomat. Da sempre poco affidabili, ma la maggior parte degli elettori ieri sembrava non curarsene. Trenta click, più uno per confermare le scelte e il gioco è fatto.
Quattro anni fa mancava il back-up, oggi invece le preferenze sono stampate su carta velina all’interno della macchina nell’eventualità che sia necessario un riconteggio. Ammesso che l’apparecchio funzioni. In alcuni seggi sono andati tutti in tilt e i tecnici hanno impiegato due ore per riattivarli; in altri hanno registrato preferenze diverse da quelle espresse. C’è chi ha votato Obama, ma la preferenza è andata a McCain o viceversa. La carta resta indubbiamente più affidabile, ma non al 100% se è scrutinata da uno scanner ottico: schede inceppate, illeggibili, rifiutate.
Tanti piccoli problemi segnalati qui e là, ma, nonostante le previsioni catastrofiche della vigilia, il sistema complessivamente ha retto. È bastato aumentare il numero dei seggi e quello delle cabine per ottenere un risultato che dovrebbe essere ovvio per una grande democrazia come quella americana: una giornata elettorale normale, anche in presenza di un’affluenza alle urne massiccia, forse da record.
Così anziché raccontare un’altra giornata epica, i cronisti americani hanno appuntato sui taccuini tante piccole curiosità. A Richmond, capitale della Virginia, un seggio ha aperto con mezz’ora di ritardo a causa di un usciere, l’unico ad avere le chiavi d’ingresso, che non ha puntato la sveglia e alle sei continuava a dormire mentre centinaia di persone aspettavano in coda. Tutti per strada anche nella Leon County, vicino a Miami per colpa di una serratura rotta. C’è chi è stato troppo previdente e si è messo in coda alle 4, due ore e mezzo prima dell’apertura. Inutilmente: le code nemmeno in grandi città come New York hanno superato le due ore. Le uniche polemiche in New Hampshire e in Virginia: nel primo Stato lo staff di John McCain ha fatto causa contestando le difficoltà di accesso al voto. In Virginia, che ha una forte concentrazione di basi militari gli uomini di McCain hanno chiesto a un tribunale federale una proroga di dieci giorni della scadenza del voto per i militari all’estero.
Alla fine le televisioni si sono concentrare su due paesini del New Hampshire, che, come da tradizione, sono stati i primi a concludere le operazioni di voto, subito dopo la mezzanotte. Dixville Nortch da quarant’anni vota a destra, ma quest’anno quindici dei suoi ventuno elettori hanno scelto Obama e altrettanto è accaduto a Hart’s Location.
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