Milano - "Sono contento di non essere morto". Visto da vicino, nella sua stanza d’ospedale, Remigio Radolli è una specie di gigante che ride con quel che resta della sua faccia. Una maschera, gonfia e viola. La mandibola spezzata in due. «Mi servirà un restyling», dice. Un disastro. Il rapinatore che lo ha ridotto in questo stato, e cui lui ha poi piantato tre revolverate in corpo, è in un altro ospedale. «Si salverà, m’hanno detto. Mi fa piacere. Ma se continua così prima o poi troverà qualcuno che lo manda al Creatore per davvero. Poco ma sicuro. Ma sono contento che non sia toccato a me chiudergli il conto. Perché, guai giudiziari a parte, ci sarei rimasto male, davvero».
Da una manciata di ore, il rapinatore che con due complici ha dato l’assalto all’oreficeria di Radolli a Cinisello Balsamo ha un nome, un cognome e un curriculum. Ed è un curriculum che potrebbe offrire nuovo carburante alle polemiche sulle norme «buoniste» sull’immigrazione. Perché si tratta di un albanese di ventisei anni, immigrato clandestinamente in Italia, che nelle maglie della polizia c’era già finito. Gli era stato ordinato di andarsene dall’Italia. Si era ben guardato dall’obbedire. Ed era svanito nel mare dei senza nome e senza volto che popolano il Belpaese: per riapparire all’improvviso giovedì mattina a Cinisello Balsamo, davanti alla gioielleria di Remigio Radolli.
Alle due di ieri pomeriggio, Radolli è nella sua nuova stanza d’ospedale, nono piano del San Gerardo di Monza, chirurgia maxillo-facciale. Lo hanno portato qui per ricostruirgli - probabilmente martedì mattina - la mandibola sfasciata. Anche quando incontra il cronista del Giornale si sforza di sorridere: «Ha visto come sono bello?». Ieri mattina, quando era ancora all’ospedale Bassini di Cinisello, erano arrivati a trovarlo due esponenti del governo: il ministro della Difesa Ignazio La Russa e il sottosegretario al turismo Michela Vittoria Brambilla, per anni leader dei commercianti. È con loro che Radolli si è confidato più a lungo. Ha detto di essere contento di non avere un morto sulla coscienza. E ha raccontato - nei limiti del possibile, con i ricordi un po’ mischiati dalle botte e dai calmanti - i dieci minuti della rapina.
«È entrato uno, uno solo. Si vedeva subito che era straniero dell’est. Ma non è vero che mi sono allarmato per questo. Ne girano tanti, dalle nostre parti. E sono abituato ad averli come clienti. Ha chiesto di vedere un orologio. Io, tranquillo, gliel’ho fatto vedere. Poi mi fa: mi apre tutto l’espositore? Ecco, lì qualcosina ha iniziato a non convincermi. Se li vuole vedere tutti, gli ho detto, fa prima ad andare in strada e guardarli dalla vetrina. Anche perché intanto ho visto che altri due tipi si erano infilati tra le due porte. Poi ho fatto lo sbaglio decisivo: mi sono distratto un attimo, mi sono piegato. E lui mi ha dato un colpo pazzesco sulla testa. Non ha usato il calcio della pistola. Ha usato la canna, il davanti, che è ancora più dura. Ma io non sono crollato. Ho iniziato a lottare, come potevo, mentre lui continuava a colpirmi».
Che la pistola del bandito fosse finta, Remigio Radolli lo ha saputo a cose fatte: «Non c’era nessun motivo di credere che non fosse vera», racconta. È convinto di essere dalla parte della ragione, di essersi difeso. Dalla Procura di Monza nessun annuncio, nessun avviso di garanzia. «Ma se gli serviranno degli avvocati - dicono La Russa e la Brambilla - glieli faremo avere gratis».
Il rapinatore, intanto, continua a migliorare. Ma le tre pallottole del gioielliere lo hanno conciato male, e ancora per qualche giorno non si potrà interrogarlo. Così i carabinieri di Monza per adesso si concentrano sulla caccia ai due complici che - quando le cose hanno iniziato a mettersi male - hanno tagliato la corda.
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