Per Alitalia difficoltà (forse) insormontabili

Caro Granzotto, siamo in Francia, anno 1852: Carlo Luigi Napoleone diventa imperatore, è Napoleone III. Canti, musiche, Marsigliese a tutta gola, giubilo popolare, speranze rosee, stabilità sociale e progresso, soprattutto quello tecnico, promettono un futuro luminoso. Si sta sviluppando la rete ferroviaria francese e tre plutocrati ebrei sono privilegiati negli appalti; sono J.Rothschild in gara con J.E.Pereire, di origine portoghese e socio d’affari di A.Gould, ministro delle Finanze di Napoleone III. Contro il ricchissimo Rothschild, Pereire contrattacca con un’idea che, tramite il socio Gould, viene approvata dall’imperatore. Il testo è di tono patriottico, salvaguarda i beni pubblici, come le ferrovie, dalla voracità dei privati (i Rothschild). Istituito così il «Crédit Mobilier», si parte con 122mila azioni a 500 franchi l’una. I francesi comprano in massa; dopo una settimana le azioni salgono a 1.600 franchi l’una. È dunque nato il più ricco istituto nazionale francese e lo dirige Pereire. Ora, con le opportune modifiche ed un’onesta gestione, delegata al Comune di Milano, non si potrebbe fare altrettanto per salvare Alitalia: rimetterla in voto regalmente, auspice il popolo italiano finalmente alzabandiera?


Sarebbe bello, caro Missadin. Purtroppo l’Alitalia è quella che è, piena di debiti e di personale in esubero, troppo corpulenta per restare una compagnia regionale e troppo mingherlina per reggere alla concorrenza delle grandi sulle rotte intercontinentali. Inoltre, fra i tanti, ha anche un problema che nessuna cordata o azionariato popolare è in grado di risolvere: la flotta è vecchia, i suoi aerei consumano fino al doppio del carburante degli esemplari più recenti. Con quel che costa oggi il petrolio quasi quasi conviene tenerli a terra. Il guaio, poi, è che anche disponendo di ingenti capitali non è possibile rinnovarla perché Boeing e Airbus hanno il portafoglio ordini completo fino al 2015. Sta di fatto che anche una «onesta gestione» - e già qui ti voglio - non le consentirebbe di sopravvivere se non alleandosi o facendosi comprare da una grossa compagnia che abbia, oltretutto, un considerevole numero di opzioni d’acquisto di aeromobili di ultima generazione (opzioni che Alitalia dissennatamente non ha). E con questi chiari di luna lei crede che sarebbero molti i piccoli risparmiatori pronti ad investirci i propri risparmi? E poi, guardi, mi par proprio che il Crédit Mobilier non nacque per fare da collettore dell’azionariato popolare rivolto allo sviluppo della rete ferroviaria francese. Ma come società di investimenti per la promozione di imprese industriali. Industriali e non, perché fu anche una delle tre o quattro banche che, ritenendo il Piemonte impegnato nell’azione unitaria un buon affare, vi investirono i loro capitali. Non saprei dirle con quali risultati perché come certo saprà il Crédit fallì nel 1867 un po’ per via di certe operazioni sbagliate, molto perché era troppo piccolo per poter tener testa - ecco che ci risiamo - alla merchantbank dei Rotschildt sui principali mercati finanziari. Per tornare a noi, le azioni della «Chemin de fer» andarono a ruba, certo.

Ma un conto è investire i propri risparmi in una nuova iniziativa (la ferrovia era nata in Francia solo venticinque anni prima) di sicuro successo e di prevedibili sviluppi. Un conto è il salvataggio di una azienda decotta come l’Alitalia, da tempo sull’orlo del fallimento e tenuta in ostaggio dai sindacati. E, ancora, un conto è la Belle époque, un altro l’Euro époque.

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