Per giovedì è stato annunciato il «Malpensa day»: una protesta a cui parteciperanno istituzioni, autorità e sindacati contro il declino dell’aeroporto lombardo. In gioco un futuro diverso da quello del drastico ridimensionamento del traffico. Ma la (ri)annunciata battaglia per lo scalo, attraverso la rinegoziazione dei diritti di volo bilaterali dall’Italia verso i Paesi extra Ue ed extra Usa, ha radici lontane: fin dal 2007, all’annuncio del ritiro di Alitalia dall’attività di hubbing sullo scalo, molte voci invocarono misure di liberalizzazione, e si fecero più sonore all’inizio del 2008, quando la cessione ad Air France sembrava cosa fatta. Da allora, tuttavia, non è accaduto proprio nulla: 25 compagnie straniere hanno chiesto la revisione dei vincoli che impediscono più collegamenti, ma nessuna ha avuto soddisfazione. Soltanto Emirates ha ottenuto il raddoppio dei voli con Dubai e a Korean sono stati attribuite tre frequenze settimanali con Seul: ma si tratta di autorizzazioni provvisorie, perché i rispettivi accordi non sono stati modificati. In altre parole, a livello di governo non si è mosso un dito.
La stessa acquisizione di Alitalia da parte di Cai non ha aiutato. Perché - anche su sollecitazione di Air France, da 9 anni partner commerciale e futuro azionista della nuova Alitalia - nel passaggio dal commissario a Cai, il portafoglio dei diritti è stato «blindato» e la compagnia ha tenuto strette anche rotte che non esercita da anni.
Giova forse ricordare che cosa sono i diritti bilaterali. Mentre all’interno della Ue e nelle relazioni Ue-Usa le compagnie volano in regime di «cieli aperti», per tutti gli altri Paesi sono i singoli governi che trattano destinazioni e frequenze, che vengono attribuite a una o più compagnie nazionali; la logica di queste pratiche un po’ antiquate era (è) quella della protezione delle compagnie di bandiera. Alitalia, sia durante il monopolio che dopo, ne ha approfittato a man bassa, e tuttora non vuol arretrare di un millimetro. Gli accordi prevedono, oltre al numero dei voli e le compagnie, anche gli aeroporti: in questo senso Malpensa è fortemente penalizzata rispetto a Fiumicino, che rappresentando la capitale è sempre stato più rispondente a una logica d’immagine nazionale, più che di business.
Sono i governi che devono riprendere in mano i trattati e renderli più attuali. Ma, nel caso italiano, rivedere gli accordi vorrebbe dire toccare i vecchi privilegi di Alitalia, e questo tuttora non è facile. Osservava nel febbraio 2008 Giulio De Metrio, direttore generale della Sea: «L’interesse di Air France sarà quello di ottimizzare il proprio network, che s’incardina innanzitutto su Parigi e Amsterdam. L’accessibilità dell’Italia, dunque, diventa ancora di più una responsabilità del governo, che a questo scopo dovrà promuovere la rinegoziazione di molti accordi con altri Paesi». Undici mesi dopo, queste parole sono di sconcertante attualità. L’unica differenza è che allora Air France stava per comprare Alitalia, oggi sta per diventarne il primo azionista: ma la sostanza non cambia.
Da Malpensa sono servite una settantina di destinazioni intercontinentali di medio e lungo raggio, contro le 77 di un anno fa; Alitalia ne mantiene solo tre (New York, San Paolo, Tokio), mentre sono stati cancellati anche i voli per Boston e Chigago di Air One, durati meno di un anno e che, col senno di poi, si può dire che erano stati ispirati da pura logica promozionale.
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