Allevi: «La classica è elitaria io non temo di essere popolare»

Dopo il successo americano il musicista ha suonato al Conservatorio

Antonio Lodetti

da Milano

Aveva lasciato il Conservatorio di Milano per andare ad annusare l’aria di Harlem e conquistare il Blue Note, tempio del jazz, con le sue microsinfonie. Sabato sera Giovanni Allevi, il maghetto del pianoforte, è tornato nella Sala Verdi del Conservatorio (per la rassegna Nuovi Suoni) per lanciare la sua nuova sfida. «È un concerto importante - ha detto -, torno all’Accademia da cui sono fuggito dopo aver trovato il successo coniugando classica, jazz e pop, mondi che raramente dialogano tra loro. Sono felice di entrare con sonorità nuove nel tempio più rigoroso della musica». Così, emozionato ma sicuro di sé, il dinoccolato maghetto del pianoforte è salito sul palco per proporre gli undici quadretti dell’album No concept. Trame armoniche semplici, introspettive, «senza concetto» appunto, che partono dalla musica colta per approdare alla libertà ritmica del jazz; melodie elaborate con tecnica e cuore che contagiano l’austera Sala Verdi piena come nelle grandi occasioni. Il finale è scontato. Un oceano di applausi, tre bis, quattro chiamate in scena, fan in fila con il quadernetto da autografare («e pensare che dieci anni fa a un mio concerto c’erano cinque persone»). Cosa avrà mai questo Harry Potter della tastiera per affascinare il pubblico? «I miei brani nascono dalla musica colta, ma non hanno paura di essere popolari - spiega Allevi -; la vera musica classica è sempre pop, nel senso che è vicina alla gente. Solo nel Novecento si è arroccata in una torre d’avorio con la dodecafonia e la seriale. Un giorno ho visto un gabbiano volare a pelo dell’acqua. Ho pensato: se avesse volato alto non l’avrei neppure visto. Così è la musica: arriva dal basso per far parte del sentire comune». Nascono così i suoi arpeggi ora dolci ora nervosi (Go with the flow che apre il concerto), gli slanci percussivi che rimandano all’Africa (Ciprea), i gorghi ritmici che tracimano nel jazz di Jarrett e Tristano (Le tue mani, Qui danza e una splendida improvvisazione inedita ancora senza titolo), la purezza della melodia (Come sei veramente, colonna sonora dello spot Bmw). Suoni nuovi, si diceva. «Semplici, ma non di facile ascolto - ribatte Allevi -, ovvero la semplicità è la complessità risolta». Suoni forse un po’ anomali, quelli di Allevi, «contaminati» moderni ma radicati nella tradizione. Scandalizzano (o fanno cassetta), così come un tempo compositori come Guillaume Dufay mescolavano canzoni volgari e messe polifoniche. Tra il fascino delle note e la sua stralunata dialettica, Allevi dribbla qualunque critica. Qualcuno lo avvicina addirittura a Shumann: «Lui è imprevedibile e spezza continuamente le linee melodiche, io mi sento più vicino al linguaggio lineare di Chopin, che elabora la melodia in modo straordinario». Altri cercano di definirlo, ora d’avanguardia come Ludovico Einaudi, ora sperimentale come Patrizio Fariselli, ma lui si definisce artista che suona per un pubblico di poeti e sognatori, e lo dimostra con il suadente e mistico fascino di Breath, a meditation fatta di accordi caldi e roboanti silenzi, e con i profumi da favola di Prendimi dedicata agli amori adolescenziali.

Comunque vada per Allevi è un successo, ma lui punta già verso altre mete. Sta preparando il tour italiano, e il 15 maggio tornerà a New York, sul luogo del delitto, e poi in un villaggio indiano lì vicino, Wathchung, dove è nato il suo primo fan club ufficiale.

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