Altro che leader di destra, Fini ormai è diventato lo zerbino di Bocchino

Fini ha mollato la maggioranza per ridursi a maggiordomo di Bocchino "pigliatutto". E gli ubbidisce come con il clan Tulliani

Altro che leader di destra, Fini ormai è diventato lo zerbino di Bocchino

Doveva governare l’Italia, non riesce nemmeno a governare l’Italo. Povero Gianfranco, che tri­ste parabola: non voleva fare il se­condo di Berlusconi, adesso è co­­stretto a fare il maggiordomo di Bocchino. Ma sì, dài, avete visto com’è finitol’atte­so raduno di Rho? Fini ha chinato la testa di fronte ai diktat notturni del falchetto di Na­poli, gli ha sacrifi­cato buona parte dei suoi più fedeli collaboratori, e gli ha consegnato nelle mani quel che resta del partito, poco Futuro e nessuna Libertà. Non male: il leader che avrebbe dovuto con­durre con mano ferma il Paese verso un domani radioso, a fatica riesce a condurre un’assemblea politica verso un domani litigioso. Considerato quel che si è visto, viene da pensare che quest’uomo avrebbe problemi anche a gestire un’assemblea di condominio. Riuscirebbe a prendere una sola decisione: la riunione è sospesa. E Bocchino, naturalmente, fa l’amministratore.

Che Fini non fosse un con-dottiero, l’avevamo già immaginato. Che il suo carisma fosse simile a quello di una pantegana col mal di pancia,l’avevamo pure pensato. E che fosse propenso a farsi mettere i piedi in testa un po’ da tutti,l’avevamo sospettato da quando abbiamo saputo delle sue meravigliosa gesta nel mondo fatato dei Tullianos : uno che si fa abbindolare dall’ex fidanzata di Gaucci; uno che per amor elisabetto mette a rischio la faccia, oltre che la carriera politica; uno che non riesce a farsi dir la verità sulla casa di Montecarlo dal cognatino con la Ferrari; uno che soccombe alle ragioni della suocera fino a far imprudenti pressioni sulla Rai per accreditarla come produttrice di programmi televisivi; ebbene, da uno così non ci si può certo aspettare che tiri fuori gli attributi quando si tratta di far politica. Si sa che ama andare a fondo, ma solo quando va al mare. Quando resta a Roma tutt’al più galleggia. O, peggio, nasconde la testa sotto la sabbia.

Però, ecco, c’è un limite a tutto. L’altra sera mica doveva mettere d’accordo Putin e Obama, né Gheddafi e Israele, non gli toccava la mediazione fra Marchionne e la Fiom, o fra i colossi del credito e la finanza internazionale. Macché: doveva mediare tra Bocchino e Urso, Viespoli e Della Vedova. Bocchino e Urso, avete capito? Siamo all’abc della politica, allo stracchino contro la mozzarella, un braccio di ferro da formaggio fuso, insomma, roba che anche Topo Gigio avrebbe qualche possibilità di riuscirci. Fini no. S’è alzato dal tavolo, poi ha lanciato una mediazione, poi s’è rimangiato tutto. E alla fine ha venduto Urso e i moderati, consegnando quel po’ di organizzazione che gli è rimasta nelle mani di Italo Bocchino. Cioè del più spregiudicato. Quello che urla più forte. Tipico atteggiamento da leader, no? Darla sempre vinta a chi alza la voce.

A questo punto, torna la domanda centrale di tutta questa assurda vicenda: ne è valsa la pena? Gianfranco Fini era il numero due del Pdl, era a capo di una maggioranza salda che aveva la possibilità di governare il Paese nei prossimi anni, aveva la possibilità di fare le riforme, di far sentire le sue ragioni, di costruire davvero un pezzo di futuro (e di libertà). E invece ha buttato tutto all’aria. Ha messo in difficoltà il partito, la maggioranza, il Paese, le istituzioni. E tutto questo per cosa? Per dare un partito a Bocchino.

Un partitino piccino picciò, roba da organizzazione dei pensionati, una specie di giocattolino per non annoiarsi nelle sere d’inverno e poter essere invitati al gran ballo del Quirinale. Niente più. Perfetto, si capisce, adesso Italo sarà contento. Ma se a Italo viene voglia di diventare presidente di una squadra di calcio, Fini che fa? Gli compra la Lazio? E se gli viene voglia di diventare cantante? Gli affitta il teatro Ariston di Sanremo? Con Gianni Morandi come spalla?

Da dove venga tanto potere di Bocchino su Gianfranco è difficile sapere. Però i fatti sono evidenti: Italo ha iniziato la carriera facendo l’autista di Tatarella, ma adesso usa Fini come un taxi. Si fa portare in giro, a tassametro zero. E lui, Gianfry dei Tullianos , «l’uomo che l’Italia aspettava, il leader che salverà il Paese», come lo inneggiarono a Bastia Umbra sfiorando il culto della personalità, quello cui si rivolgevano gli intellettuali dicendo: «L’Italia ha bisogno di lei», quello coccolato e blandito da Fazio, Saviano, Muccino, dagli scrittori dei salotti chic e dalla sinistra engagé , ebbene lui, s’è ridotto a far lo zerbino d’Italo, il portatore d’acqua di un deputato che fino all’anno scorso considerava poco più di nulla.

Bel risultato, presidente Fini, complimenti:

forse così riuscirà a far sopravvivere un inutile partitino. Sicuramente non riuscirà a sopravvivere lei: un leader, per essere un leader, deve dimostrare che pensa al futuro dell’Italia. Mica solo al futuro dell’Italo.

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