«Altro che movente sessuale, serve la pena di morte»

A Lugagnano nessuno vuol credere alla storia a luci rosse che avrebbe innescato il delitto: « Non si può dare retta a un assassino»

nostro inviato a Lugagnano (Verona)
Dopo il giorno dell’orrore, arriva quello dell’incredulità: perché il sipario alzato dai carabinieri sulla morte di Luigi Meche e Luciana Rambaldo apre una scena che pochi, in paese, ritengono verosimile. Uno scenario di libertà sessuale legittima, perché si parla di sesso tra adulti consenzienti, eppure difficile da accettare: e che fa a pugni con l’immagine ufficiale di Gigi Meche, con le foto che si trovano in ogni bar e in molte case, l’alpino in prima fila ai cortei, l’imbianchino ben voluto da tutti, il volontario di casa in parrocchia.
Davanti alla casa del massacro, le antenne paraboliche delle televisioni stanno già smobilitando. Il caso è chiuso, anche se non tutto è ancora chiaro. «Claudiu Stoleru ha ucciso Meche perché lo pressava con le sue richieste di sesso», dicono i carabinieri. Ma c’è chi non ci sta. Adelino Zivelonghi abita qui davanti, conosceva Meche da una vita: «Io non ci credo, lo scriva chiaramente, non-ci-cre-do. E mi domando con che coraggio si prenda per buono il racconto di un assassino». Ci vuole la pena di morte, aveva detto a giallo ancora aperto il sindaco Gualtiero Mazzi, e il signor Zivelonghi non ha cambiato idea: «Bisogna prenderlo, tagliargli le orecchie e il pisello. E non stare a credere alle monate che racconta. Vede, io ho i miei peccati, ma vado in chiesa tutte le settimane, perché una domenica non è domenica se non ci sono il Vangelo e il lesso con la peverada. E in chiesa ho imparato che bisogna vedere da che pulpito viene la predica. Oggi ci vogliono fare credere che Gigi Meche era un pervertito. Ma da che pulpito viene questa predica? Dal pulpito di un assassino, e io agli assassini non ci credo. Conoscevo Gigi e lo facevo entrare in casa mia... Chi prende per buone le parole di un assassino è peggio di un assassino, perché uccide Gigi due volte».
Certo, in paese c’è chi - fin dalle prime ore dopo il delitto - ha detto cose diverse, e al centro commerciale Grande Mela è facile trovare chi racconta che dei suoi gusti in tema di sesso Meche non facesse gran mistero. Ma ieri, davanti alla scabrosità della confessione di Claudiu Stoleru, è come se il paese si ritirasse, si rifiutasse di credere. E in prima fila, a rifiutare di credere, ci sono naturalmente i parenti delle due vittime, investiti in ventiquattr'ore dal doppio choc del delitto e della sua spiegazione. «Conoscevo mio cognato, so come era. Quello che racconta l’assassino di Luigi e di mia sorella gli serve solo per scagionarsi» dice all’agenzia «Ansa» Assunta Rambaldo, sorella e cognata dei due assassinati. «Basta, siamo stanchi; vogliamo essere lasciati in pace, abbiamo il nostro dolore a cui pensare», dice.

E il sindaco Mazzi, che ieri ha annunciato l’arresto di Stoleru dal palco del corteo per il 25 aprile, quando gli chiedono del retroscena risponde secco: «In questo momento penso che debba prevalere la vicinanza ai familiari colpiti da questa enorme tragedia».

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