nostro inviato a Pechino
«Dicono che sia il locale più difficile da scovare di tutta Pechino. Ma non è vero niente. È una trovata del proprietario per attirare clienti», aveva detto Zhang, il giovane avvocato col quale ero stato a cena l’altra sera. «Tu prendi nota. Non puoi sbagliare. Allora: fatti lasciare dal tassista alla Yonghegong Dajie e imbocca la Guanshuyuan Hutong. Svolta a destra alla prima traversa e ti trovi sulla via del tempio di Confucio. Segui la strada che curva a destra, poi gira subito a sinistra. L’Eje Bar è dall’altro lato del marciapiede rispetto al muro posteriore del tempio».
Un dedalo. Un labirinto. È stato allora, quando la Torre del Tamburo avrebbe suonato le 3 del mattino, ai tempi dell’imperatore, che mi è venuto in mente il motto di Harri Batasuna, braccio politico dell’Eta: «Alegre y combativo». Però valeva la pena. Divanetti in un cortile raccolto, calma, luci soffuse; atmosfera confidenziale, come se fra poco, per pura magia, dovessero levarsi nell’aria le voci di un Fred Bongusto o di un Bruno Martino, non so; cameriere dolci e soccorrevoli come geishe; frinire di cavallette o di cicale insonni, per finire.
Via dal frastuono della città, dal baritonale tum... tum... tum... della Pechino by night, dalle luci sfolgoranti e dalla musica a tutto volume, dall’hip hop e dal trapano demenziale che di notte, soprattutto se è sabato notte, polverizza il cranio di moltitudini di invasati che alle 6 del mattino tornano a casa con la faccia da replicanti, convinti di essersi divertiti un casino. I loro genitori, i loro nonni, quelli che vengono dalle messe cantate di piazza Tienanmen e ancora si ricordano il vecchio Lin Piao in piedi sulla decappottabile accanto a Mao mentre agita il Libretto rosso, ovviamente non li capiscono. Sono i ventenni, i trentenni di oggi che hanno scoperto Rimini, Riccione, le megadiscoteche, i bar, i pub, i club, la baldoria. E poiché hanno deciso di non farsi mancare niente, nella vita, hanno replicato, moltiplicandola per dieci, anche la vita notturna, copiandola come hanno fatto con le borse di Vuitton e le scarpe della Adidas.
Venivo dalle sponde del lago di Houhai: una specie di Las Vegas senza casinò dove friggono milioni di luci al neon di tutti i colori e avevo gli occhi a rotella come quelli di Willy il Coyote dopo essere stato abbagliato da un’auto. È qui, tra l’argine settentrionale e quello meridionale di questo bacino artificiale fatto scavare durante la dinastia Yuan, che è sbocciata la dolce vita di Pechino. Quella che una volta gli stranieri residenti nella capitale trovavano solo nel romantico quartiere di Sanlitun, l’equivalente del Village per New York.
«Mi ricordo che fino a otto anni fa, sulle rive del lago c’erano solo due bar», dice Shawn Mathers, americano di Saint Louis, a Pechino da nove anni. «E uno dei due era questo in cui ci troviamo». Si chiama No name bar, il bar senza nome. Rispetto alla rumba che agita la notte qui intorno, al No name si respira una certa quiete. «Ma i tempi in cui si veniva qui a prendere un Martini e si faceva poi una passeggiata lungo le sponde del lago sono finiti», confessa Shawn, sul filo della nostalgia. Dipende da quello che uno cerca, naturalmente. «Se passi tutta la giornata in un ufficio, a far di conto, può essere che la sera ti vada di farti frastornare da un po’ di musica, dal colore delle luci, dalle chiacchiere degli amici - dice Anne Rutherford, impiegata in una multinazionale americana -. E qui, tra la Houhai Nanyan e la Houhai Beiyan, trovi quello che vuoi». Più divertente che a San Francisco, per dire? «Altroché - risponde garrula Anne -. Non puoi paragonare San Francisco a Pechino. I locali qui stanno aperti fino all’alba, mentre a San Francisco si chiude baracca alle due del mattino».
Mercedes, Audi, Ferrari parcheggiate davanti alle tentazioni in technicolor di Gongti Ximen, la Rodeo Drive della movida pechinese. Chissà che non trovi qui il suo ganzo, stasera, la graphic designer Han Li, 25 anni portati con la spavalderia prevista dalla sua carta d’identità. Bella, capelli lunghi fino alle spalle, una bandana vivacissima sotto un cappellino bianco da baseball, Li sa bene che se la vedessero i suoi genitori resterebbero a bocca aperta. Laggiù, in provincia, nel Fujian (una specie di «foggiano», se ho interpretato bene i gesti della ragazza) non capirebbero. «I miei sono contadini, gente che ha sempre sgobbato fino a spezzarsi la schiena. Io voglio di più. Lavoro un sacco e mi diverto più che posso. Voglio una vita piena di glamour, e sono pronta a tutto pur di averla».
Ecco: nessuno meglio di Li, e dei suoi amici tardo-yuppies col ciuffo stirato sugli occhi che ballano al ritmo di una salsa (o è un merengue?) al Bed Bar, nel quartiere di Dongcheng, rappresentano meglio le ambizioni, i modesti e anche un po’ banali obiettivi dei giovani cinesi. Che poi, a ben vedere, sono gli stessi dei modenesi, o spagnoli, o brasiliani: denaro, successo, vita facile, sesso e rock and roll.
Non venite però a fare la morale a Jack Zhu, patron del più grande website - 260mila soci - dedicato alla vita notturna cinese (clubzone.cn). «Io non faccio il filosofo - dice offrendo champagne ai suoi ospiti in un club di Sanlitun -. Non mi interesso di morale. Sono un uomo d’affari. La gente qui fa una vita sempre sotto pressione. Il lavoro, la competizione, lo stress. Qualcuno che la sera li faccia divertire ci voleva, no?». Zhu racconta che quando tornò dal Canada, cinque anni fa, a Pechino c’erano solo due mega club: dove il mega sta a indicare un ambiente grande almeno mille metri quadrati. «Adesso - racconta soddisfatto - solo a Pechino ce ne sono 19. È diventata un’industria». Zhang Youdai, che a 21 anni è considerato «il padrino» dei dj cinesi (la sua faccia è già finita sulla rivista musicale Rolling Stone) gli dà ragione. «E badi - ammicca il ragazzo - che siamo solo all’inizio.
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