Dopo molto girare nel Palazzo, Giuliano Amato divenne Presidente del Consiglio tra '92 e '93. Raggiunto il traguardo, disse: «Con questa esperienza concludo la mia carriera politica. Non pretendo di essere il protagonista di molte stagioni». Intendeva che, terminato il mandato, sarebbe tornato a insegnare il Diritto Costituzionale di cui è esimio cultore. Aggiunse: «A differenza di altri colleghi mi considero imprestato alla politica». L’affermazione stupì poiché il «prestito» durava da 25 anni e a nessuno pareva più tale. Si prese però atto della saggia intenzione e Giuliano fu sommerso di interviste tanto era raro il caso di un inossidabile che fa fagotto. Tra varie banalità, ricamò questo squisito epitaffio: «La politica non può essere la vita».
Da allora sono passati quasi 15 anni e Amato è sempre lì. Anziché sparire ha moltiplicato gli incarichi. Dal '94 al '97 è stato presidente dell’Antitrust. L’anno dopo ministro delle Riforme del governo D’Alema I. Nel '99 ministro del Tesoro del D’Alema II. Dal 2000 al 2001 è stato nuovamente presidente del Consiglio. Dal 2001 al 2006 senatore, dal 2002 al 2004 vice presidente della Convenzione costituente europea. L’anno scorso infine è diventato per la quinta volta parlamentare e ministro dell’Interno dell’attuale governo. Così, all’opposto di quanto aveva proclamato, ha sempre occupato una poltrona, non ha trascorso un giorno senza lauto stipendio, non si è mai fatto vedere in un’aula universitaria. Nessuno gli ha rinfacciato la mancanza di parola, né Amato si è complicato la vita cercando di giustificarsi.
Giuliano è un uomo capace di tutto. Ha un senso dell’onore tutto suo, se gli serve potrebbe mentire o addirittura tradire. Così, è restato sulla cresta dell’onda. Questa forma di intelligenza gli è valsa il soprannome di dottor Sottile, imperitura creazione del giornalista e amico Eugenio Scalfari, anche lui in lite permanente con la coerenza.
Nella sua quarantennale carriera, il dottor Sottile ha vagato tra estrema sinistra e riformismo, è stato laico a singhiozzo, clericale per convenienza, opportunista sempre. Ha legami col miglior capitale, va a braccetto con Max D’Alema, strizza l’occhio a Silvio Berlusconi, piace al Vaticano, è ben visto dagli americani.
Una sua grande abilità, quando raramente gli capita di restare a secco di poltrone, è spargere la voce di essere candidato a grossi incarichi. Negli anni, lo si è dato per certo alla presidenza della Bers, la Banca per lo sviluppo dei Paesi dell’Est, a quella della Commissione europea, a un seggio alla Consulta, alla Presidenza della Repubblica. È tra i fautori del Partito Democratico della sinistra. In una recente esternazione, lievemente terroristica, ha evocato lo spettro di «una deriva populista» - con tanto di imprecisato uomo nero dietro l’angolo - se non si farà al più presto il Pd. Un’esagerazione nel suo stile, per raggiungere un obiettivo che gli fa comodo. Mira infatti ad aver un ruolo di prim’ordine nel partito che nascerà.
Un decennio fa, di punto in bianco, si disse in preda a una crisi di coscienza. Si atteggiò a laico pensoso e dichiarò che l’aborto era un omicidio. Mandò in brodo di giuggiole papa Wojtyla e ne conquistò il favore. Al punto che, nel '99, la Santa Sede tifò per Giuliano al Quirinale al posto di Carlo Azeglio Ciampi. Negli anni del governo Berlusconi, è stato così meravigliosamente prudente da fare breccia nel Cav che gli rilasciò questo attestato: «È il più capace di tutti». Così, col placet del centrodestra, divenne vicepresidente della Convenzione Ue per la Costituzione europea. Addirittura, tre mesi fa, la Cdl lo ha candidato alla presidenza della Repubblica al posto di Giorgio Napolitano.
Senza compromettersi mai, sempre mediando, Amato, come il mago Zurlì, si candida spesso a conciliare gli opposti. Da vicepresidente del Partito socialista europeo è riuscito a farsi designare rappresentante tanto dei Ds quanto dello Sdi di Boselli, che si amano come tutsi e hutu. Ora, ha presentato un provvedimento sull’immigrazione che stravolge la Bossi-Fini. Con levigate parole lo spaccia per un freno agli ingressi di massa, ma lo firma col ministro rifondazionista Paolo Ferrero, che vuole un mondo senza frontiere. Quando la legge fallirà, Giulianino non pagherà dazio. Farà lo gnorri, come fece col falso ritiro a vita privata, e si metterà nuovamente a disposizione del Paese.
Fresco sessantanovenne, il dottor Sottile è nato per caso a Torino dove, per ragioni d’ufficio, era approdato il babbo, un esattore delle imposte di Agrigento. Poco dopo, il genitore fu trasferito a Canelli in quel di Asti. Qui, il fanciullo fece le elementari prima del trasloco della famiglia a Lucca, con gioia della mamma viareggina. In Toscana, Giulianino si è formato. Al liceo fu un cannone. «Bravo, ma antipatico», dicevano i compagni. In mezz’ora consegnava il tema in classe e traduceva il greco senza vocabolario. Alle quattro del pomeriggio aveva finito i compiti e andava a giocare a tennis. Nonostante il fisico da ninnolo era un campioncino della racchetta. Ne sa qualcosa Giorgio La Malfa, altro patito, che pure essendo il doppio di lui, è stato spesso battuto. Per rendersi ancora più odioso, conquistò la più bella ragazza del liceo, Diana Vincenzi, che divenne sua moglie. Passeggiando, le metteva la mano sulla spalla in segno di possesso più che per tenerezza. Ormai, vivono in simbiosi da mezzo secolo. Si sono laureati insieme in Legge a Pisa e sono entrambi diventati cattedratici a Roma. Lui di Diritto Costituzionale, lei di Istituzioni famigliari. Si confrontano e battibeccano spesso. Oggi sono nonni.
Protettore di Giuliano nell’Ateneo di Pisa fu il costituzionalista Carlo Lavaggi, un ex fascista che si era riciclato come socialista nel dopoguerra. Con lui si laureò. Il suo assistente Alessandro Pizzorusso, poi membro del Csm, si accorse che lo studentello lo stava scalzando nel cuore del professore e cominciò a detestarlo come già i compagni di liceo. Giulianino, che collezionava odi come medaglie, tirò dritto. Prese un master negli Usa, tornò e disse: «Mi do dieci anni per la carriera universitaria. Poi conquisto l’Italia». Meno che trentenne salì in cattedra a Perugia. Dopo poco era docente a Roma, il massimo.
Con altrettanta prestezza, si intrufolò in politica. A 20 anni si iscrisse al Psi di Lucca. Era seguace di Antonio Giolitti, un ex comunista che incarnava la sinistra del Psi di Pietro Nenni. Nel '64, a Giulianino venne un grillo in testa e seguì Lelio Basso nel Psiup. L’ebbrezza estremistica si esaurì in sei mesi. Rientrò sotto l’ala di Giolitti che fu ministro del Bilancio nei governi Rumor dei primi anni '70 e ne divenne il capo dell’ufficio legislativo. Era uno dei professorini che infestavano allora i gabinetti ministeriali con la velleità socialistica di fare la «programmazione economica». Amato si distingueva per essere il più «impaziente, giacobino e snob» dei vari Franco Bassanini, Stefano Rodotà e simili. A metà degli anni '70, parve che il Pci fosse alle soglie del potere. Giuliano si esaltò. Cominciò così a girare con la Guida Monaci da cui cavava gli indirizzi della gente da «mandare in pensione».
Quando il «destro» Bettino Craxi prese in pugno il Psi nel '76, la prima reazione di Amato fu di stizza. Scrisse a Bassanini: «Piuttosto che fare politica con questi cravattari sarebbe meglio ritirarsi a vita privata. Noi invece non ci ritireremo». Infatti, capo un anno, era ai piedi di Bettino. Ne divenne lo scendiletto. Il leader gli elargì una scranna parlamentare e lo promosse tuttofare a Palazzo Chigi, come sottosegretario alla presidenza tra l'83 e l'87. Quando Craxi fu ribattezzato Ghino di Tacco, Amato fu detto Ghino del taschino perché era a portata di mano come un kleenex. Soppiantò perfino il delfino Claudio Martelli nelle grazie del capo che lo impose come ministro del Tesoro nei governi Goria e De Mita. Scoppiata Tangentopoli, Craxi designò Amato come premier e, dal Colle, Scalfaro eseguì obbediente. Con Giuliano a Palazzo Chigi, per noi fu un anno di tregenda. Nottetempo, ricorderete, ci scippò i soldi dai conti correnti bancari il 10 luglio '92. Nel successivo settembre la lira ebbe una tremenda svalutazione. Il dottor Sottile la negò, definendola sottilmente un «riallineamento». Un mese dopo ammise di avere «mentito agli italiani». Il trattamento peggiore lo riservò però a Craxi quando i pm lo accusarono di ruberie. «Non immaginavo tanto marciume», esclamò Amato dopo essere stato 30 anni nel Psi e avere visto tutto. Da Londra, in viaggio ufficiale, consumò il tradimento definitivo. Disse: «Craxi è un uomo politico finito».
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