Rodolfo Parietti
da Milano
Prima Intel e Yahoo!, poi Google. E adesso Amazon. Wall Street pesca dal mazzo delle trimestrali un poker avvelenato, con un’ultima mano che sembra promettere un piatto (di utili) sempre meno ricco. Così, con rinnovata frequenza, il termine tecnologico finisce per accoppiarsi con l’interrogativo sulla sostenibilità dei profitti, quei profitti su cui tutti - o quasi - avevano puntato. E le reazioni degli investitori sono tanto più violente quanto più i deludenti conti dell’ultimo quarto del 2005 sembrano riflettere non solo una crisi di crescenza di un settore, ma essere piuttosto lo specchio di un’America che ha tirato il freno (più 1,1% il Pil tra ottobre e dicembre). E che, oltretutto, vede aumentare le possibilità di altri due rialzi dei tassi nelle riunioni di marzo e maggio della Federal Reserve.
Amazon ha perso ieri il 10,36%, grosso modo la stessa percentuale con cui il mercato aveva punito Intel e Yahoo! a metà dello scorso mese di gennaio, anche se, a parte il Nasdaq (meno 0,83%), i mercati hanno sostanzialmente retto bene (meno 0,54% il Dow Jones, positivi o poco limati i mercati europei). L’aumento del fatturato (più 17%, appena al di sotto dei tre miliardi di dollari) non è bastato a compensare l’erosione dei margini (meno 43% gli utili, scivolati a quota 199 milioni) provocata dall’appesantimento delle spese, come per esempio quelle per promozioni e spedizioni. La regina delle vendite on line sente sul collo il fiato dei competitor di rete quali E.Bay e Google, oltre ad accusare la concorrenza dei rivali tradizionali Wal-Mart e Target. Non a caso il gruppo ha puntato su un robusto piano di investimenti che, secondo il vertice, darà benefici nel prossimo futuro. Ma gli investitori del «tutto e subito» non sembrano voler concedere aperture di credito. Anche perché Amazon prevede di realizzare quest’anno fra i 370 e i 510 milioni di utili, una stima ben al di sotto degli oltre 636 milioni previsti da un pool di analisti.
Più in generale, sull’andamento della Corporation America pesano alcune incognite. Da un lato gli investimenti aziendali, dai quali gli analisti si aspettano un incremento tale da compensare la debolezza dei consumi privati; dall’altro la tenuta del mercato del lavoro. Il tasso di disoccupazione è sceso in gennaio ai minimi da 4 anni al 4,7% (era al 4,9%), ma i posti di lavoro creati sono stati solo 193mila contro i 250mila previsti dagli analisti. Lo scarto è sensibile e potrebbe essere il primo segnale che le imprese sono meno disposte ad assumere personale. Non solo. Dopo anni, la produttività è calante mentre le paghe, salite del 3,3% su base annua, sono un costo in più per le aziende e potrebbero innescare spinte inflazionistiche poco gradite a Ben Bernanke, fresco presidente della Federal Reserve.
Nel meeting di martedì scorso, l’ultimo presieduto da Alan Greenspan, la banca centrale Usa ha alzato al 4,50% il costo del denaro lasciando aperta la porta a ulteriori manovre restrittive allo scopo di contrastare il carovita. Ieri i future sui Fed Fund indicavano il 90% di possibilità di un ritocco all’insù dei tassi nella riunione del prossimo 28 maggio.
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