Controcultura

«American Gods» Se la serie tv è un film d'essai

Il «dibattito», crescente nei mesi, è davvero esploso nelle ultime settimane, complice la polemica al Festival di Cannes sul rapporto tra il cinema vero e proprio, che fin dalla sua nascita siamo stati abituati a vedere e a godere nelle sale su grande schermo, e le nuove forme nate come serie a puntate, in particolare per le piattaforme digitali.

Se davvero siamo in presenza non tanto di un linguaggio che si sta adattando a un nuovo mezzo, quanto piuttosto di un cinema geneticamente modificato che può assumere anche la dimensione espansa, come nel caso dell'installazione Carne y Arena di Alejandro Iñárritu presentata prima a Cannes poi alla Fondazione Prada alla maniera di un'opera d'arte. In realtà sempre più autori prediligono il formato della serie, poiché più adatto a sperimentazioni formali, più libero dai vincoli temporali canonici, più diluiti e adatti alle digressioni. Ma quale fenomeno commerciale! È questo il nuovo film d'essai, ormai pressoché invisibile in sala, sacrificato dalla grande distribuzione.

Capita così che diversi «prodotti» si rivelino invece contenitori di visioni multiple, in grado di fare scattare nel pubblico meccanismi di selezione intellettuale assai sofisticata (altro che le commedie di cassetta). In particolare colpisce certa scrittura cinematografica, articolata e complessa, per la quale ogni tanto si grida al miracolo: le serie tv sono la nuova letteratura. Al di là della derivazione dal feuilleton ottocentesco, alcuni di questi film affondano nel romanzo di genere, anzi ne incrociano diversi strizzando l'occhio agli adepti e accontentando comunque chi è in cerca di emozioni.

Ultimo nato è certamente American Gods (disponibili cinque puntate su otto su Amazon Prime anche in versione italiana), uno strepitoso e improbabile pastiche ispirato al romanzo di Neil Gaiman, da lui stesso sceneggiato e trasformato in serie da Bryan Fuller e Michael Green. Inutile tentare di dipanare e rivelare la fitta trama in cui si nasconde di tutto, dal fantasy alle poetiche dell'iperviolenza, dall'orrore alla science fiction, dall'hard core allo splatter, ingredienti presi e frullati da sapiente mano registica e dove la qualità delle immagini risulta davvero eccezionale. Protagonista tal Shadow Moon il quale, uscito di prigione, scopre che la moglie è morta in un incidente stradale. Da lì comincia la sua avventura-incubo, qualcosa che in confronto il Michael Douglas di Un giorno di ordinaria follia era stato invitato a un picnic. Straboccante di citazioni - dallo Scorsese di Fuori orario ad Arancia meccanica, dai Cremaster di Matthew Barney al Lynch più scontato - non si capisce se American Gods possa davvero aspirare al ruolo di serie di culto del 2017, molto incensata dalla critica per l'evidente e talora supponente letterarietà, oppure se proprio questo livello alto e ambizioso non la penalizzi nella trama, che talora si perde nei meandri della follia linguistica di Gaiman.

Che sia comunque tra le opere più innovative oggi sul digitale è sicuro.

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