«Amo il rischio e avrei voluto correre negli anni ’60 e ’70»

Altro che Michael Schumacher. Il tedescone 42enne con cui ha lottato per mezzo Gp di Monza. In confronto a lui, kaiser Schumi è un ragazzino. Michael potrebbe essere suo figlio. Persino suo nipote. Perché Lewis Hamilton è tanto vecchio. Come sportivo, s’intende. Anno più anno meno, Lewis avrà fra i sessanta e i settant’anni. Perché non è solo il pilota più spettacolare della F1, Hamilton per stile, coraggio, per amore del rischio e incoscienza, è una macchina del tempo che in pista ci ricorda come si correva nei gloriosi anni Cinquanta, nei mitici Sessanta, nei favolosi Settanta e, forse, in un pizzico di Ottanta. Quando i piloti erano cavalieri del rischio e non impiegati del rischio.
Si dice che lei sia l’unico pilota moderno a correre come in quell’epoca, a sfidare il destino a ogni Gp.
«I piloti di quegli anni vivevano e correvano rischiando di più. Mi sarebbe davvero piaciuto correre in quell’epoca. Non saprei dire bene il perché, ma credo di essere sempre stato uno che rischia. Mi spiego: non nel senso che metto in pericolo gli altri, bensì che rischio un po’ di più io. Se un rivale frena a cento metri, ecco, io tendo a farlo a 99. Se poi questo mio modo di correre piace in Italia, non posso che essere felice. Perché avete passione per i motori, per la Ferrari, per le corse».
Si sente diverso dagli altri suoi colleghi piloti?
«No, però ritengo che prendere qualche rischio in più sia ciò che distingue un pilota molto veloce da un pilota non così veloce. Tempo fa David Coulthard mi ha confidato che una volta diventato papà ha deciso che avrebbe preso meno rischi perché “domani voglio essere certo di poter vedere mio figlio...”. Lo trovo naturale. Io sono ancora giovane, non sono padre».
Conosce Marco Simoncelli, pilota di Motogp?
«Sì, ho visto di recente una sua gara».
Marco è stato messo sotto processo dagli altri piloti. Dicevano che correva in modo pericoloso. Ora non sembra più lo stesso.
«Marco è una grande talento e deve aver subito dagli altri forti pressioni. È il suo modo di correre che l’ha portato in alto. Siamo piloti, corriamo a trecento all’ora uno accanto all’altro, e a volte qualcosa può accadere. Anche io sono stato accusato di essere troppo aggressivo. Ma non corro per rovinare le gare degli altri, voglio solo batterli cercando di non varcare mai la sottile linea che separa una guida pericolosa da una guida al limite. Poi se sbagli, come è successo a me a Monaco (con Massa, ndr), allora fai un piccolo passo indietro, senza però cambiare modo di correre. Credo che Marco stia facendo questo».
Un ex pilota tedesco di F1, Hans Stuck, dopo il suo botto di Spa con Kobayashi ha detto che lei avrebbe bisogno di una terapia.
«Io? Cos’ha fatto Stuck in F1?»
Ha corso 74 Gp. Zero vittorie.
«Appunto. Questo dice tutto»
In Italia sempre più persone guardano la F1 per la Rossa, ovviamente, ma anche per vedere che cosa combina lei; per la sua guida spettacolare.
«Davvero? Mi fa proprio piacere. Perché il vostro Paese è un po’ una seconda casa, dove ho speso tanto tempo all’epoca dei go-kart, a inizio carriera. Una seconda casa dove ho affrontato anche momenti difficili come nel 2007 e 2008 (l’epoca della spy story McLaren-Ferrari, ndr). E mi sono accorto che da allora il sostegno del pubblico è aumentato di anno in anno».
E al Gp d’Italia ne ha avuto la riprova?
«Eccome. Io e il mio team principal, Martin Whitmarsh, parlavamo proprio di questo a Monza: mi diceva che anche lui aveva avuto la sensazione che l’entusiasmo dei tifosi - che ci chiamavano, “ehi voi McLaren, ehi McLaren” - fosse sincero. Non erano solo dei ferraristi in cerca di autografo, ma dei nostri sostenitori».
E il suo duello con Schumi a Monza?
«Una vera sfida, era davvero difficile passarlo, era incredibilmente veloce».
Ha pensato a quella volta sui kart, a Kerpen?
«Dieci anni fa partecipò a una gara di contorno e corremmo insieme. Lui era la stella, gli parlai mezzo secondo, gli dissi che ero un fan... e lui mi rispose “ti ho visto correre, ben fatto”. Per me fu speciale».
Lei ha iniziato a correre in Italia. Come mai non abbiamo nuovi piloti in F1?
«Me lo domando anche io. Ricordo piloti come Davide Foré o Gianluca Beggio, erano degli Dei sui kart.

Credo che tutto dipenda da un mixi di capacità d’adattamento alle prime monoposto, di occasioni e ovviamente di sostegno economico».
Se non fosse pilota?
«Mi piacerebbe fare qualcosa di molto molto tranquillo... Ma per un giorno solo».

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