Politica

«Amore e un cucchiaio alla volta ecco come ho salvato mia figlia»

Parla la giornalista che ha guarito la sua ragazza con il sistema inglese che punta tutto sull’alimentazione

da Milano

«Un cucchiaio alla volta»: così è intitolata la testimonianza che Harriet Brown ha pubblicato sul New York Times circa un mese fa. Lei è una giornalista e scrittrice famosa negli Usa per i suoi saggi leggeri su argomenti di interesse popolare: come perdere l’uomo sbagliato, come trovare la babysitter giusta. Ma stavolta tema e tenore erano del tutto diversi. «Un cucchiaio alla volta» è il racconto in prima persona di come una madre ha guarito la figlia adolescente di nome Kitty da una malattia che si può sconfiggere solo un cucchiaio alla volta: l’anoressia.
«In un’opprimente sera di luglio della scorsa estate mi sedetti ai piedi del letto di mia figlia, con un frappé di gelato al caffè in mano. Kitty rabbrividì e si avvolse in una copertina. Seicentonovanta calorie. Ecco che cosa rappresentava quel frappé per me. Per Kitty invece era l’oggetto delle sue angosce più profonde». Così inizia il diario di un anno trascorso, giorno dopo giorno, a curare Kitty, 14 anni per 32 chili di peso. Kitty a cui un mese prima è stata diagnosticata l’anoressia, dopo che i suoi genitori hanno chiamato il pediatra perché da settimane non fa altro che parlare e leggere di cibo, si nutre solo di frutta e verdura, tacchino e yogurt magro, fa ginnastica tutte le sere per ore, frigge e scalda chili di cibo che non mangerà mai. Kitty che dopo due mesi di malattia perde i capelli a ciocche, è disidratata, ha 31 battiti al minuto, mostra in rilievo le ossa ed emana dalla pelle l’odore di chi va in chetosi, l’odore del corpo che digerisce se stesso.
Il calvario e poi il successo terapeutico di Harriet narrato sul Nyt commuovono migliaia di lettori e al momento la Brown passa gran parte della giornata a rispondere alle lettere di genitori che si trovano nella sua stessa situazione. Lo fa perché lei ne è uscita, grazie a un metodo inglese, il «Maudsley approach». L’abbiamo intervistata per chiederle come ha salvato la figlia. «L’unica medicina per questa malattia è il cibo - ha spiegato -. Quando siamo denutriti, il nostro cervello non funziona come dovrebbe. Gli anoressici non hanno il controllo del proprio comportamento, sono malati di mente. Molti invece negli Usa pensano ancora che l’anoressia sia una scelta».
Genitori, parenti, amici di pazienti anoressici cercano di aiutarli con amore. Ma lei sembra aver trovato un metodo che funziona.
«L’amore è molto importante. Ma è più importante il cibo. Ho deciso di scrivere di anoressia perché desidero che altre famiglie vengano a conoscenza del metodo Maudsley, efficace nel 90 per cento dei casi ma poco conosciuto. Se si inserisce la parola diabete in Google, ne esce una road map di metodi di guarigione. Se si prova con anoressia, ci si perde la testa e nessuno sa darti indicazioni pratiche. Eppure l’anoressia è uno dei disturbi psichiatrici con il più alto tasso di mortalità. Circa il 15 per cento degli anoressici muore, per suicidio o denutrizione. Molti diventano depressi o ansiosi cronici, o sviluppano dipendenze da alcool o altre sostanze. Circa la metà rimane sola tutta la vita».
Ci sono dei segnali da cui si può intuire che si tratta di anoressia?
«Sì: l’ossessione crescente per tutto ciò che riguarda il cucinare e il cibo. “Giocare” con il cibo a tavola invece di mangiarlo: tagliarlo a pezzettini molto piccoli, spargerlo nel piatto. L’insorgere di piccole ossessioni anche in altri ambiti della quotidianità. L’ansietà che aumenta. E poi c’è un sintomo di cui troppo spesso i medici non tengono conto: non tanto perdere peso quanto quello di non guadagnarne. Gli adolescenti devono prendere peso, ogni anno. Alcuni anoressici, come mia figlia, non perdono peso, ma nemmeno ne prendono».
Ha mai pensato ai motivi per cui pare essere soprattutto una malattia femminile?
«Buona domanda. Fattori genetici? Carattere? Ormoni? Cultura? Leggo di continuo che sarebbero le rappresentazioni mediatiche di corpi femminili idealizzati a spingere le ragazze verso l’anoressia, a sviluppare la cosiddetta sindrome di Kate Moss. Interpretare la malattia come risultato di una crisi culturale è una grande tentazione, ma se fosse vero, milioni di donne americane sarebbero anoressiche e non il 2 per cento.

Dev’essere qualcos’altro».

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