Ancelotti: «Io al Chelsea? Hanno avuto di peggio...»

Roma«La partita di Firenze non inciderà sul mio futuro», dice mentre presenta la sua autobiografia. Perchè il futuro è già segnato. Carlo Ancelotti andrà al Chelsea e lascerà dopo otto anni ricchi di successi (otto trofei) la panchina del Milan. Sarà un caso, come precisa il tecnico di Reggiolo a domanda specifica di un cronista d’oltremanica, ma il primo e l’ultimo capitolo del libro hanno lo stesso titolo: Convocato da Abramovich. «Sono due anni che studio l’inglese, ma con scarsi risultati, forse è colpa dei miei insegnanti...», dice con il sorriso Ancelotti.
Che nel libro Preferisco la coppa (in riferimento più al salume) scritto con il giornalista di Sky Alessandro Alciato e presentato con in sala la moglie con la quale si è riappacificato, rivela gli incontri con il magnate russo del Chelsea («una persona in gamba, alla quale piace discutere di calcio, è stata un’esperienza divertente»): uno a Ginevra nel maggio 2008, l’altro qualche settimana dopo in un albergo parigino a due passi dagli Champs-Elyseés. E che Adriano Galliani, appreso dell’incontro, lo chiamò per chiedergli come era andata la «scappatella». «Se il Milan mi chiede di rimanere, io resto», sottolinea l’allenatore emiliano. Stavolta non glielo chiederanno. E la proposta «indecente» del Chelsea verrà accettata. «Io e Abramovich insieme? Direi che c’è di peggio. Un peggio che per lui è passato, avendo già lavorato con Sua Specialità Mourinho», la frase che è anche una prima stoccata al portoghese. Ancelotti il 1° aprile scorso, come racconta nel libro, dichiara a Sky di voler restare al Milan, ma di aver detto anche qualche bugia. Poi in serata incontra ancora Galliani, al quale dice che andrebbe ad allenare i Blues. «Non se ne parla proprio», la risposta secca dell’ad milanista, la stessa di quando nel 2006 non lo lasciarono partire per Madrid sponda Real che gli offriva 15 milioni di euro. La vicenda si è poi evoluta come sappiamo e il divorzio, che arrivi o meno la qualificazione per la prossima Champions League dei rossoneri, è ormai scontato. Ma il rapporto si concluderà senza polemiche o discussioni feroci, perché il Milan è come «una grande famiglia. Non a caso da 20 anni è guidata dallo stesso presidente e dallo stesso amministratore delegato. Persino i camerieri di Milanello non sono cambiati...».
Il libro, i cui proventi saranno devoluti alla Fondazione Borgonovo per la lotta contro la Sla, racconta in maniera ironica 30 anni di calcio («e non solo», spiega l’allenatore rossonero). Ed è pieno di attacchi a Josè Mourinho, definito «Sua Mourinhità». «Se il Grande Comunicatore, Colui che sa, Immenso Provocatore, Allenatore Speciale che non deve chiedere mai fosse già stato in Italia alla fine di quella maledetta estate 2006 – racconta nel libro Ancelotti – si sarebbe sicuramente fatto gli affari nostri e avrebbe detto una cosa sola, alla portoghese: "zeru tituli per il Milan". In realtà in quella stagione arrivammo ad Atene, insomma zeru tituli una minchia». Anche perché «io la coppa quasi sempre la mangio, ma quando posso la vinco». Graffiante anche su Ibra, sogno del Milan in quella stessa estate, quella di Calciopoli. «Pinocchio era praticamente rossonero, era già pronta anche la divisa. Ma gli è mancato il coraggio di aspettare, non ha avuto pazienza. La frenesia non paga, Massimo Moratti sì. E un po’ mi ha deluso... Voleva vincere la Champions League: gliel’avremmo servita su un piatto d’argento».
Il libro è un ritratto di un allenatore normale. Trent’anni di calcio raccontati con leggerezza e con aneddoti in serie. Come il trasferimento da Trigoria a Milanello e di quando lo scambiarono «per culattone» nel primo incontro con Adriano Galliani in un residence della capitale; o ancora quello del 1998, quando fu costretto «a scappare come un ladro» da Istanbul per non firmare un contratto coi turchi del Fenerbahce.

Poi l’amore per Zidane («il più grande»), l’ammirazione per Kakà («il secondo più forte mai allenato»), passando per Del Piero («leader nato») e Ronaldo («unico nel suo genere»). Fino alla rabbia per quando gli juventini lo insultavano dicendo «un maiale non può allenare». E un grazie ai club che lo hanno cercato e a chi gli ha dato la possibilità di allenare e vincere tanto.

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