
Invece di rivolgerti a uno psicologo, chiedi aiuto e risposte all'intelligenza artificiale. Sta prendendo sempre più piede quello che gli esperti considerano un allarme sociale da non sottovalutare. Cercare conforto al disagio, alle paure, al disorientamento sentimentale interrogando ChatGPT, o un altro chatbot basato sull'IA, è una tendenza che accomuna sempre più i giovani e i giovanissimi: l'ultima ricerca è di Skuola.net, effettuata su un campione di 2.000 ragazzi tra gli 11 e i 25 anni. Il 15% degli intervistati interroga ogni giorno uno di questi modelli per vicende personali, e fra questi il 25% si rivolge a un chatbot come fosse uno psicoterapeuta.
Ne abbiamo parlato con la psicologa e psicoterapeuta Maria Rita Parsi, autorità in materia, presidente della Fabbrica della pace e Movimento bambino onlus, già membro del Comitato Onu sui diritti del fanciullo e Cavaliere della Repubblica. Parsi ha redatto la Carta di Alba, a tutela dei giovanissimi dai pericoli del web.
«Sono più di 15 anni che porto avanti quello che considero un impegno indispensabile per il benessere dei ragazzi e per la loro formazione. C'è un legame formidabile fra i nativi digitali e il virtuale, che noi adulti fatichiamo spesso a capire, o non ne siamo capaci», dice Maria Rita Parsi. «I più giovani stanno lanciando un grido di aiuto: raccoglierlo è compito delle autorità autorevoli, di chi fa comunicazione, insegna, approva le leggi. Dei genitori. I chatbot utilizzati come psicologo sono un campanello di allarme: questo è l'ultimo giro di boa, dobbiamo prestare molta attenzione».
Perché i giovanissimi cercano risposte nell'intelligenza artificiale? Sono fragili, si vergognano di confidare le proprie debolezze, non hanno punti di riferimento reali?
«Per tutte queste ragioni, e molto di più. Consultare l'IA per loro è comodo, è gratuito, rassicura perché il chatbot è sempre a disposizione, giorno e notte. E non li costringe a rivelare agli adulti, o ad estranei, segreti che magari i ragazzi sentono come qualcosa di sconveniente o di squalificante. Il chatbot è un complice perché non racconterà a nessuno le tue fragilità e ti fornisce una risposta rapida, un sostegno immediato che va a riempire un vuoto».
ChatGPT non ha occhi, né corpo: il confronto con uno psicologo in carne e ossa spaventa i ragazzini?
«Sì, il punto è questo. L'intelligenza artificiale fornisce risposte che in molti casi possono essere anche efficaci: i chatbot sono l'insieme di tante informazioni, ma non sono una persona. La relazione con lo psicologo si alimenta invece dei vissuti che nascono dall'incontro, non è soltanto domanda e risposta. Con l'IA ti confronti con la voce, al massimo con un volto costruito al computer, ma non c'è contatto fisico. Manca l'odore, che è invece la radice della vita. Il primo impatto di un bambino che esce dal grembo della madre è con l'odore. Il feto ascolta, sogna, soffre: il neonato sente gli odori».
I ragazzini chattano, non telefonano; mandano audio, non parlano. Quanto è pericoloso relazionarsi in modo sempre più virtuale?
«Molto. Quella dei più giovani dalla tecnologia, e ora dall'intelligenza artificiale, è una dipendenza totale, un pericolo grave: peggiore anche del fumo e dell'alcol. È una tale dipendenza che il mondo fuori non è più importante, conta solo il tuo mondo interno, quello che ti sei creato, che non prevede le persone, gli umani. L'intelligenza artificiale diventa una droga, con lei ti sembra di stare bene perché ti dà suggerimenti che ti possono anche aiutare, contiene informazioni, riferimenti scientifici, testimonianze, tutto quello che gli addestratori ci mettono dentro. Difficilmente i giovani riusciranno a liberarsi da questa dipendenza».
C'è quindi anche un altro pericolo dello psicologo-chatbot: quello che non lasci andare il paziente quando è «guarito»?
«Il chatbot non può certo fare un corretto lavoro terapeutico, che è invece quello del bravo psicoterapeuta. Il percorso con gli allievi - io non li chiamo pazienti - è fornire loro gli strumenti perché si emancipino e poi affrontino la vita. Alla fine della strada percorsa insieme, gli allievi conquistano una certa autonomia. Con l'intelligenza artificiale non accade, non te ne stacchi più. Già nel 2017 denunciai questo pericolo di dipendenza con il libro Generazione H, dove H sta per Hikikomori, i ragazzi che si ritirano dal mondo e hanno contatti con l'esterno solo attraverso la tecnologia. Il fenomeno fu codificato dallo psichiatra giapponese Tamaki Saito alla fine degli anni Novanta, quando si profilava questa Internet addiction': è stato un allarme molto sottovalutato».
C'è una spiegazione psicologica all'attrattiva dei giovani verso tutto ciò che è virtuale?
«Erich Fromm, psicanalista e filosofo, spiegava che la madre di tutte le angosce umane è l'angoscia di morte, e che tutte le difese psicologiche dell'uomo sono organizzate per contrastare questa angoscia. Lo condivido in pieno. C'è la difesa spirituale: io morirò, ma mi aspetta un'altra vita migliore. La difesa demografica: morirò, ma continuerò a vivere nei miei figli. Quella estetica: la bellezza, la mia arte mi sopravviveranno. Poi c'è la difesa ideologica: le mie idee non moriranno mai Il tema è sempre lo stesso: siamo moribondi, quindi cerchiamo l'immortalità. L'ultima difesa è: il mio avatar, quindi la mia rappresentazione virtuale, non morirà mai. E siamo arrivati al punto. Il legame così potente fra nativi digitali e nuove tecnologie ha questa ragione inconscia: stare in un mondo virtuale significa garantirsi un'immortalità che in quello reale è impossibile. Ed è talmente gratificante che ne diventi dipendente».
L'urgenza di rivolgersi allo psicologo è quasi raddoppiata nel mondo dopo la pandemia. Ma in Italia gli psicoterapeuti sono perlopiù privati, mancano in grande parte quelli di base.
«Il problema della salute mentale riguarda tutti, adulti e ragazzi, così come il ricorso all'IA al posto dello psicologo, che è ormai una tendenza trasversale. Io mi riferisco qui ai più giovani: sono preoccupata per i minori perché devono ancora formarsi, anzi è corretto dire che dobbiamo aiutarli a formarsi. Per sostenere i ragazzi è necessario, ad esempio, moltiplicare le unità sanitarie locali dentro la scuola. Le dipendenze cui abbiamo accennato aumenteranno: l'intelligenza artificiale non si può e non si deve fermare, ma è necessario fornire gli strumenti ai giovani per conoscere, e capire».
Che ruolo deve avere la scuola in questo contesto?
«La scuola è fondamentale, insieme alla famiglia sta alla base di tutto il ragionamento. Ho appena terminato un libro che uscirà a settembre, si intitola proprio La scuola al tempo del virtuale. Chiedo vengano inserite nel programma scolastico alcune nuove materie indispensabili per la sopravvivenza nella società attuale, come l'Educazione al virtuale, appunto, che è un'emergenza. Un'educazione all'uso virtuoso del virtuale, siamo già in ritardo. E insieme ai figli, devono imparare anche i genitori, che spesso non sanno e quasi sempre non hanno tempo, nè voglia.
Rispondiamo a questa domanda: se il padre e la madre non sanno gestire le potenzialità delle tecnologie e dell'IA, o addirittura neanche le conoscono, come potranno continuare a dialogare con i figli? È una sfida immensa, una missione impossibile: ma io mi chiamo Rita, come santa Rita, la patrona dei casi impossibili. E sono fiduciosa».