Anche il punk, che odiava i musei, finisce in una teca

È sempre la solita storia. Più ti opponi al museo, più finisci - col tempo - per esserne assorbito, imprigionato. L’ultimo esempio? Il punk. Un filone - tra i più vivaci a dire il vero - della controcultura di fine Novecento, che spazia in vari campi dando il suo meglio, però, con la musica (lo so, sembra un paradosso) e la moda (basti citare il nome di Vivienne Westwood). A 35 anni di distanza quello che resta di quell’ondata di energia anarcoide entra in un museo.
Anzi, peggio, in un’accademia. Si tratta di Villa Medici a Roma dove si è aperta la mostra «Europunk», curata dallo stesso padrone di casa dell’istituto francese, Eric de Chassey, insieme con Fabrice Stroun. Manifesti, magliette, fumetti, foto e filmati servono in questo caso non a raccontare la storia di un movimento ma a consacrarne il valore artistico. Questa la tesi forte cui si aggrappa de Chassey. «Il punk per me - spiega il curatore che ha impiegato più di cinque anni per mettere insieme il materiale della mostra - è più importante dell’arte povera e della transavanguardia». E di quella temperie oggi resiste soprattutto il lavoro del collettivo francese Bazooka.
La mostra concentra la sua attenzione nel lustro compreso tra il 1975 e il 1979. Sono gli anni in cui esplode la «mina» britannica del punk rock. Movimento che vede come protagonista assoluto il gruppo dei Sex Pistols di Sid Vicious. La musica era all’apparenza un’accozzaglia di rumori. Sotto covavano, però, fermenti di ribellione che presto avrebbero trovato i canali più insoliti per esprimersi.
Di sicuro non dentro un museo. Lo scopo era quello di rendere il più democratico possibile il sistema di comunicazione. Quindi bando alla pittura, esempio di perizia e cultura. E via con i collage e i ciclostili. L’esempio migliore campeggia all’ingresso della mostra: un poster che a suo modo pubblicizza una delle prime canzoni dei Sex Pistols: God save the Queen. A idearlo è stato Jamie Reid che ha messo il volto della regina Elisabetta come medaglione della Union Jack. Un volto censurato da pecette nere che ne coprono occhi e bocca. A differenza di avanguardie affini, come il movimento dada e il situazionismo, che si muovevano comunque all’interno del circuito artistico, l’arte punk vive lontano dai destinatari d’elezione per diffondersi per le strade e nelle cantine attraverso manifesti e volantini con messaggi tanto vivaci quanto improbabili. In una delle magliette in mostra campeggia la scritta «only anarchists are pretty», affiancata dal ritratto di Marx.

In tanti volantini croci celtiche e profili di Stalin affiancano slogan strampalati quasi fossero teste d’ariete per violare le fortezze del canone e del senso comune. Un tentativo fallito se oggi, a distanza di 35 anni, quelle provocazioni sono diventate roba da museo.

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