Anche il sindaco di New York vuol conquistare la Casa Bianca

Guarda, osserva, legge. Telefona. Michael Bloomberg si prepara: «Sì, potrei candidarmi alla presidenza». Hillary, Rudy, Barack, gli avversari. La terza via: repubblicani, democratici e in mezzo lui, miliardario e sindaco della città più importante del mondo. Lui che era il finanziatore principale dei liberal e poi è diventato sindaco da conservatore. Indipendente adesso, perché i quattrini possono fare la differenza più dell’organizzazione di un partito.
Bloomberg ci pensa: ufficialmente non è in corsa, ma non l’ha mai smentito. Ogni volta che gli chiedono se vuol fare il presidente, sorride e ripete la stessa frase: «Sono il sindaco di New York. Ora penso alla mia città». Adesso, cioè. Però, si vota tra un anno e mezzo e lui non avrebbe neppure bisogno di mettersi nella lunga scia delle primarie: da indipendente corre come e quando vuole. «Un Ross Perot con le credenziali», l’ha definito ieri il reverendo Al Sharpton, ex candidato alla Casa Bianca. Nel 1992, Perot spese 60 milioni di dollari per prendere il 19 per cento. Bloomberg ha un portafoglio più grosso: potrebbe spendere anche 500 milioni di dollari, molti dei quali suoi e molti altri di colleghi imprenditori, supporters, amici e amici degli amici. Gli ambienti vicini al sindaco hanno raccontato ieri al Washington Post che Michael è «dentro». A 65 anni, senza la possibilità di ricandidarsi alla City Hall di New York nel 2009, Bloomberg può togliersi la soddisfazione di mettersi tra la Clinton e Giuliani, i due newyorkesi oggi in testa ai sondaggi. Hillary, Rudy, Michael: la corsa verso il 1600 di Pennsylvania avenue diventerebbe un affare circoscritto a Manhattan. L’idea non è mai dispiaciuta a Bloomberg: l’anno scorso prese l’aereo per un tour dell’Irlanda. Era lo stesso viaggio che John Kennedy fece prima di ufficializzare la candidatura. Scelta non casuale, ovviamente. Secondo i suoi uomini, il signor sindaco ha lanciato segnali ai suoi alleati e avviato altrettanti contatti con potenziali sostenitori. Un modo silenzioso per far capire che bisogna fare i conti con lui. Sì o no, lo dirà soltanto quando repubblicani e democratici avranno scelto i loro candidati. Tanto può aspettare e nel frattempo continuare ad agitare la vita degli altri aspiranti presidenti. Perché quando si muove, lui ottiene: è stato eletto due volte con maggioranze schiaccianti, e pochi mesi fa è stato il principale alleato del senatore Joe Lieberman, silurato dal partito democratico e rieletto al Congresso da indipendente. Bloomberg gli ha dato soldi e uomini.
Ha vinto, un’altra volta. Vince sempre, a dire la verità. Vince con la gente che adora il suo modo di governare: con lui, gli omicidi a New York sono scesi ai livelli più bassi degli ultimi 50 anni. Vince con i giornali che lo adorano: il New York Sun da mesi ripete il suo «Bloomberg for president», il New York Observer anche. Il New York Times ha scritto che sta per diventare «il più grande sindaco della storia della città». È abbastanza per provarci.

Un altro modo per mettere un sigillo della storia alle presidenziali 2008. La prima donna, il primo afroamericano, il primo mormone, il primo premio Oscar che possono arrivare alla Casa Bianca. Ora Bloomberg, il primo che può vincere senza un partito. Da indipendente. Da miliardario.

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