Scuola e università marciano al ribasso. I motivi sono diversi ma forse riconducibili a un denominatore comune: la massificazione della cultura (e con essa quella della formazione scolastica e accademica) e una generale assenza delle famiglie nell’educazione dei giovani al rispetto degli insegnanti e dell’istruzione.
Prendiamo come esempio un’università che ha sempre avuto grandi apprezzamenti in tutto il mondo: l’università Bocconi di Milano. Se si confrontano le graduatorie internazionali delle università, gli standard di qualità della Bocconi sono scesi, non toccano più i livelli degli anni passati. Si tratta di una università privata che, proprio per questo, possiede una propria autonomia organizzativa, sia sul piano economico e amministrativo, che su quello dell’offerta formativa. I docenti della Bocconi di oggi non sono inferiori a quelli di ieri, l’attuale impegno per una didattica e una ricerca di qualità non è diverso da quello degli anni passati. Eppure, nella competizione internazionale, la Bocconi, come altre università private, tende a perdere posti in graduatoria.
L’università statale non gode di migliore salute, anzi: se si guardano quelle classifiche ci si accorge che stanno molto peggio. Viene però da chiedersi perché proprio la formazione accademica privata debba soffrire questa marcia al ribasso. Le università, anche se esigono delle prove di ammissione per l’iscrizione alle proprie Facoltà, si trovano a dover selezionare gli studenti che provengono dai licei o dagli istituti di formazione superiore. Giovani che mediamente hanno una preparazione scolastica scadente. Prove di ammissione eccessivamente rigorose rischiano di falcidiare le iscrizioni, impoverendo l’università. Anche un’università privata che non vive esclusivamente né delle tasse degli studenti, né dei contributi statali, non può permettersi l’emorragia di iscritti. È inevitabile che, accogliendo con manica larga, anche le università private debbono orientare la loro offerta formativa senza pretendere oggi quello che pretendevano ieri. Una soluzione sarebbe quella di abolire il valore legale del titolo di studio per poter scremare tra chi intende studiare per ottenere il famoso pezzo di carta e chi per prepararsi alla professione chiedendo, perciò, un livello competitivo nella loro formazione.
Ma quell’abolizione del valore legale del titolo di studio non ci sarà purtroppo mai. Allora la soluzione per rialzare la parabola dell’istruzione universitaria deve venire dalla scuola media e media superiore. Quando la scuola media funzionava a dovere, cioè prima del ’68, anche le università mantenevano un buon livello. La scuola privata, media e media superiore, era in competizione con quella statale in due modi: gareggiando in altezza o in salvezza, cercando cioè di offrire ai giovani una formazione migliore della scuola statale, oppure allestendo pietosi istituti in cui fannulloni e mezzi somari sarebbero riusciti a terminare la scuola.
Oggi, iscriversi nella scuola statale è un terno al lotto: si possono trovare docenti ottimi e pieni di buona volontà o ignoranti e scansafatiche. Non è un caso che aumentino le iscrizioni nella scuola privata, ma non perché sono aumentati i fannulloni e i mezzi somari, ma perché si cerca sempre più un’istruzione di qualità. Anche nel privato si patisce quell’abbassamento culturale di cui dicevo in precedenza, tuttavia, proprio perché privato, l’istituto ha una certa agilità organizzativa per poter offrire qualità, serietà, sicurezza.
Come esempio, ricordo il celebre Collegio San Carlo di Milano: oggi si colloca tra le scuole migliori della città per una serie di iniziative educative in grado di restituire ai giovani la preparazione necessaria per entrare a testa alta nelle migliori università europee.
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