Lo definiscono «civil servant», due parole inglesi perché in italiano non si sa come chiamarlo. In effetti il sottosegretario Guido Bertolaso è un «unicum», come lui nello Stivale non cè nessuno. Luomo dei disastri, leroe della protezione civile, il pronto intervento nelle catastrofi, lo sbrogliapericoli. E «civil servant», che è più di «servitore dello Stato» perché Bertolaso è organizzatore, soccorritore, solutore, consolatore. Emergenza rifiuti? Arriva Bertolaso. Emergenza incendi? Ancora lui. Emergenza tsunami? Sempre lui. Emergenza terremoto? Immancabilmente lui, con i suoi occhi seri, la voce rassicurante, e addosso una felpa o una maglietta blu con colletto e polsini tricolori. LItalia ha trovato il vero uomo della provvidenza.
Guido Bertolaso è un medico romano di 59 anni, con moglie e due figlie, specializzato nella cura delle malattie tropicali. Le peggiori, quelle da cui è più difficile guarire anche perché è più difficile trovare qualcuno disposto ad affrontarle. Il suo mito era Albert Schweitzer. Evidentemente occuparsi di ciò che gli altri accuratamente evitano, cioè la gente in pericolo, era la sua vocazione. Con in tasca la laurea e un master preso a Liverpool partì per lAfrica, dove dal 1977 al 79 rincorse lepidemia di colera che dilagava dal Senegal alla Somalia. Poi fu mandato nella Cambogia appena liberata da Pol Pot per aprire un ospedale nella giungla. Lospedale non cera, lo tirò su il trentenne dottor Bertolaso.
Fu Giulio Andreotti a mettere gli occhi su di lui. Mentre lUnicef gli proponeva di ritornare in Somalia, il ministro degli Esteri gli offrì di entrare nel settore della cooperazione come capo dellassistenza sanitaria dei Paesi in via di sviluppo. Bertolaso restò alla Farnesina finché vi rimase il divo Giulio («un maestro»). Un passaggio agli Affari sociali come capo di gabinetto. Poi lo chiamò la giunta di Roma guidata da Francesco Rutelli: doveva far girare la macchina dellospedale Spallanzani. Tempo un anno e il sindaco gli mise in mano lorganizzazione del Giubileo del 2000. Raccontò Rutelli: «A un certo punto monsignor Dziwisz si avvicina e dice: Il Papa vuole andare in mezzo ai ragazzi. A Tor Vergata cera la più grande folla di giovani del mondo. Impossibile, rispondiamo noi. Vuole andare ribadisce lui. E così Guido si mette alla guida dellauto che apre la folla come il mar Rosso. Un vero miracolo».
Fu la sua grande vetrina. Gianni Letta lo prese sotto la sua ala. E nonostante avesse collaborato alla campagna elettorale di Rutelli, nel 2001 Silvio Berlusconi lo piazzò a capo del Dipartimento della protezione civile. Dal Divo al Piacione al Cavaliere: un tragitto pieno di svolte a «U» destinato a proseguire, perché Bertolaso continuò a indossare la tuta con gli stemmi tricolori anche sotto Romano Prodi. E il regista delle emergenze diventa un personaggio popolare: gli sbarchi dei clandestini in Puglia, il G8 di Genova, gli incendi estivi, il crollo della cattedrale di Noto, gli aiuti nelle zone dello tsunami, limmenso flusso di pellegrini dopo la morte di Giovanni Paolo II, le alluvioni, lepidemia di Sars, lo storico vertice di Pratica di Mare. Le forze dellordine, i vigili del fuoco, lesercito di volontari gli obbediscono compatti. Un uomo-ovunque, un giocatore a tutto campo: Fiorello ha detto che «Bertolaso ha 106 controfigure», e forse ha sbagliato per difetto.
La brillante carriera sinceppa quando tocca occuparsi di rifiuti campani come commissario straordinario. Nello scontro con il ministro Alfonso Pecoraro Scanio, il migliore ha la peggio e Bertolaso è costretto alle dimissioni. Appena tornato in sella (due incarichi, sottosegretario e commissario, ma un solo stipendio), viene indagato dalla procura partenopea e il suo braccio destro Marta De Gennaro chiusa in carcere. Ma si è ripreso la rivincita in questi mesi, con la ripulitura di Napoli dalla monnezza e lapertura dellinceneritore di Acerra.
Non cè stato soltanto Pecoraro Scanio a fargli la guerra. Anche nei governi di centrodestra Bertolaso trovò qualche ministro cui non andava il suo perfezionismo, lattitudine a dire le cose in faccia e la sua abitudine a chiedere i pieni poteri. Gianfranco Fini, allora ministro degli Esteri, gli rimproverò i «personalismi eccessivi» nella gestione degli aiuti al Sudest asiatico devastato dallo tsunami.
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