Andreotti: "Io non ho fretta di morire" Il Divo Giulio batte la morte a colpi di ironia

Andreotti smentisce con classe le voci sul suo ricovero in una clinica romana da dieci giorni. Il senatore a vita scrive al sito Dagospia: "Sto bene, ringrazio il Signore per la proroga. MOlti attendono un mio passaggio a miglior vita". L'ex Dc ha portato un po' di elegante humour nella politica da trivio

Andreotti: "Io non ho fretta di morire" 
Il Divo Giulio batte la morte a colpi di ironia

«In questi giorni mi giungo­no voci insistenti su un mio rico­vero per aggravamento di salu­te. Capisco che molti attendono un mio passaggio a “miglior vi­ta”, ma io non ho... fretta e ringra­zio tutti coloro ai quali sta a cuo­re la mia salute e in particolare il Signore per l’ulteriore... proro­ga ».Così«parlò»Giulio Andreot­ti a Dagospia e d’improvviso nel­la politica italiana, dove invece di salutarsi ci si dà dello stronzo, è tornato per un momento il pro­fumo di un tempo ormai passato, gozzaniano quasi per le sue «buone cose di pessimo gusto»...

A gennaio di quest’anno Andre­otti ha compiuto novantadue an­ni, da tempo non appare più in pubblico. La Sfinge, Belzebù, la Volpe, il Gobbo, la Salamandra, il Papa Nero, il Divo Giulio sono so­lo alcune delle definizioni che l’hanno accompagnato per il mezzo secolo di storia patria che lo ha visto protagonista. L’imma­gine di lui che si è incisa nella mente degli italiani è stata quella di un potere inafferrabile e astu­to, silenzioso e attento, moral­mente cinico, ovvero con un’eti­ca particolare in cui si mischia lo spirito di una romanità popolare e clericale, la consapevolezza che siamo tutti peccatori e che quindi non ci si deve meraviglia­re di nulla...

«Il mio film preferito è Il dottor Jeckyll e Mr Hyde » ha detto una volta e più che un motto di spirito è la chiave di volta di un modo di essere e di pensare, quello che poi ha reso per decenni la Demo­cr­azia cristiana un potere immar­cescibile, pervasivo eppure quasi evanescente, di cui non si riusci­va mai a cogliere il nucleo duro, l’essenzavera. Francamente non ne rimpiangiamo la scomparsa, ma in quelli come Andreotti è sempre rimasta l’eco di un Paese che si ricordava di essere stato po­vero e si vergognava di apparire sbracato.

Il miglior giudizio politico su di lui l’ha dato una donna, e per giunta straniera, Margaret Tha­tcher, e vale la pena riportarlo per intero: «Sembra avesse una reale avversione per i princìpi, anzi la profonda convinzione che un uo­mo di princìpi fosse condannato a essere ridicolo. Vedeva la politi­ca come un generale del XVIII se­colo vedeva la guerra: un vasto e complesso scenario di manovre di parata per eserciti che non si sa­rebbero mai impegnati in com­battimento, ma avrebbero inve­ce dichiarato vittoria, capitolazio­ne o compromesso a seconda di ciò che dettava loro la forza appa­rente. Per poi collaborare nel ve­ro e proprio affare di dividersi le spoglie».

Andreotti non si è mai atteggia­to a statista: «La Storia è una cosa seria, io appartengo alla crona­ca » ha detto una volta e questo in una classe politica, e in una nazio­ne, va da sé, dove abbondano i millantatori, suona ancora più si­gnificativo. E ancora: «Non mi so­no mai considerato particolar­mente intelligente, ma certo, se mi guardo intorno, non è che mi veda circondato da geni». Pur non essendosi mai negato alla folla, pur godendo di grande popolarità, Andreotti ha sempre ispirato soggezione. Pur senza avere la fumosità cerimoniosa di un Aldo Moro, l’irruenza beffar­da di un Fanfani, l’ascetismo di un Berlinguer o la fisicità sangui­gna di un Craxi, da quel volto, da quelle orecchie e dall’ingobbi­mento delle spalle, dallo stesso in­cedere come se pattinasse, veni­va un che di curiale e al tempo stesso di libertino, una compas­sione temperata, come dire, da una sottile derisione.

In una delle sue ultime appari­zioni televisive, improvvisamen­te rimase immobile e senza repli­care alle domande della condut­trice. Essendo l’immobilità sem­pre stata una sua caratteristica, lì per lì nessuno ci fece caso, e ci vol­le un po’ per rendersi conto che Andreotti non era più compos sui . Venne data la pubblicità, la tra­smissione riprese senza di lui e poi, di lì a qualche minuto, il Divo Giulio rientrò in scena per scusar­si dell’imprevisto e rassicurare sulle sue condizioni di salute. Lo fece con la consueta impassibili­tà e allora ci venne il dubbio che, trasportato per un momento nel­­l’aldilà, avesse fatto a tempo a di­re a chi di dovere che preferiva an­cora «tirare a campare piuttosto che tirare le cuoia».

Ha scritto In­dro Montanelli che quando nel

dopoguerra Andreotti accompa­gnava in chiesa il suo maestro De Gasperi, mentre quest’ultimo parlava con Dio lui parlava con il prete. L’impressione è che in se­guito con «il principale» si sia in­staurato un colloquio.

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