Roma - Luigi Angeletti, segretario generale della Uil. Dopo l’era degli accordi senza la firma della Cgil inizia quella della Uil che si chiama fuori?
«Da cosa?».
Dal documento sulla crisi firmato da 17 tra sindacati, associazioni di imprese, banche e cooperative. Mancate solo voi.
«Non è un accordo, non è un patto, non è nulla. Sono delle volontà generiche, che se fossero recepite così come sono scritte non risolverebbero niente».
Invece cosa servirebbe?
«Un patto tra noi e il governo. Oppure anche solo un patto tra noi parti sociali, per dare indicazioni al governo su cosa vogliamo. Nessuno l’ha notato, ma per il momento non c’è nemmeno quello».
In che senso?
«Siamo stati mesi a parlare, noi sindacati e Confindustria. Cinque, sei, otto tavoli, per affrontare tutto lo scibile umano. Ovviamente tutto è naufragato al primo contrasto serio sulla produttività. Non se n’è accorto nessuno, forse godiamo di buona stampa...».
Un risultato dei tavoli non potrebbe essere il documento?
«La Uil ha preso le distanze perché è al confine tra la genericità e l’assenza di responsabilità mentre questi sono tempi in cui le responsabilità bisogna prendersele, non basta evocarle come si fa nel documento».
Prima c’era la vostra firma e poi l’avete ritirata. Come mai?
«Avevamo chiesto delle modifiche, volevamo che si indicassero tre, due o anche una sola cosa concreta da fare, ad esempio sugli investimenti. Quando è uscito il documento abbiamo visto che non c’era niente. Ci hanno detto che non si poteva, che bisogna mediare per essere tutti d’accordo».
Forse c’era l’esigenza di non dividersi sulle richieste economiche perché il vero obiettivo è dare una spallata a Berlusconi e portare Palazzo Chigi un governo tecnico?
«Conosco le persone che hanno firmato quel documento e posso dire che hanno posizioni molto diverse, quindi non credo siano stati spinti da questo. Semmai dalla paura di perdere la faccia, di fare brutta figura. Detto questo, io sono nettamente contrario ai governi tecnici».
Perché?
«Sono il contrario di quello di cui abbiamo bisogno, come ha dimostrato la crisi. Servono governi politici che scelgano e scontentino qualcuno. Se la politica è non fare scelte e tenere dentro tutti, non funziona».
Parla dell’Italia?
«Negli Stati Uniti se ne sono accorti, tanto che lì è in corso uno scontro che è tutto politico. A nessuno è venuto in mente di chiamare la Federal reserve per sapere cosa fare. La grandezza degli Usa sta proprio nel fatto che sui temi economici ci sono due opzioni chiare e trasparenti. I democratici vogliono aumentare le tasse ai ricchi e i repubblicani dicono l’esatto contrario».
Non sono «dorotei» come i firmatari del documento?
«Esatto. Per loro fortuna non hanno conosciuto quelle stagioni politiche che sono toccate a noi».
Per la prima volta dopo anni sembra ci sia una differenza di fondo tra voi e la Cisl, che non nasconde di preferire scelte condivise. È cosi?
«Si vede che sono buoni e cattolici. Io sono laico e un po’ meno portato alla bontà (ride). Ma io credo non siano più tempi del vogliamoci bene. Serve un pizzico di radicalità».
Cosa avrebbe messo la Uil nel documento?
«Tre cose semplici. La richiesta di rimuovere tutti gli ostacoli politici e legislativi che ci impediscono di fare investimenti con le risorse europee. Una rimodulazione delle tasse per alleggerire quelle sul lavoro. Poi tagli più drastici alla politica. Le province devono essere abolite. Non ce le possiamo permettere. Punto».
Il documento è stato anche letto come una presa di distanze da Tremonti. Che valutazione dà del ministro?
«In tempi duri, ha dedicato tutte le risorse disponibili agli ammortizzatori sociali e non ha dato un euro alle banche. E questo è un fatto. Con Tremonti è stato varato il piano per lo sviluppo, passato sotto silenzio. E poi ha permesso la stabilizzazione di 60mila precari della scuola. Lo dobbiamo a lui.
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