Anni di paura per l’assassino dalla pistola col silenziatore

Anni di paura per l’assassino  dalla pistola col silenziatore

di Roberto Nicolick*

Dalla fine di aprile del 1945 sino al 1947 inoltrato, Savona fu teatro di una dozzina di omicidi seriali, effettuati tutti con la stessa arma: una pistola automatica, cal. 7,65, fabbricata nel 1935, munita di silenziatore. Un’arma che, secondo accreditate versioni, era stata paracadutata dagli alleati alle formazioni partigiane, in Valle Bormida, durante la Resistenza, presa da qualcuno e accantonata per quando sarebbe tornata utile. Di certo in questa violenta vicenda ci furono solo le vittime, morte ammazzate, l’arma infatti non fu mai ritrovata e sulla identificazione ufficiale dell’assassino sussistono molti dubbi.
La pistola fu sicuramente usata da diversi criminali e tutti gli omicidi erano connessi tra di loro, nessuno poté mai assistere ad una delle uccisioni, ai fatti furono presenti solo la vittima e il o gli esecutori materiali. Se ci furono dei testimoni si guardarono bene dal parlare. Pare che l’arma venisse tenuta impugnata e nascosta alla vista da un quotidiano appoggiato all’avambraccio.
Le vittime della pistola con il silenziatore erano legate fra di loro da più fattori: avevano fatto parte a vario titolo della Rsi e quindi dovevano essere ammazzati in quanto fascisti, oppure erano benestanti da spogliare dei beni, o indagavano sui delitti e quindi dovevano essere fermati. L’arma che sparava, denominata dalla opinione pubblica e dai giornalisti dell’epoca con il nome di «pistola silenziosa» era solo lo strumento operativa di un gruppo di soggetti, molto coesi tra di loro, motivati da una ideologia, quella comunista, e con un unico obiettivo: eliminare il più possibile persone sospettate di essere state Repubblichine anche in vista di un possibile cambiamento della società. Unica eccezione nella lunga fila di assassinati fu il Commissario di Polizia che indagava sui delitti, Amilcare Salemi.
La pistola silenziosa aveva sparso il terrore in Savona e appariva e spariva come per magia a seconda della necessità, assumendo caratteristiche da vera ed unica protagonista, spersonalizzando la figura dell’assassino, dopo l’omicidio, qualcuno provvedeva a nasconderla in attesa di un altro utilizzo. Alcune voci indicavano il nascondiglio in Ospedale, murata nelle camere mortuarie, oppure in Questura, nello sciacquone di un bagno. All’epoca la Questura era profondamente inquinata da poliziotti ausiliari partigiani comunisti, lo stesso il personale ospedaliero, un infermiere ausiliario si vantava di aver «steso» venticinque fascisti sul Colle di Cadibona in una vicenda nota come «la corriera della morte».
Molto verosimilmente la pistola, già nelle mani dei partigiani, fu usata nel settembre del 44 da una Sap, squadra di azione patriottica, per ferire mortalmente Rosanna Pirosu, impiegata presso la sede del Pfr, colpita in un rifugio antiaereo durante una incursione a Vado Ligure. L’arma fu usata al buio e nessuno dei presenti sentì il rumore dello sparo coperto dal silenziatore. Era l’ideale per uccidere senza essere notati. Poi nel primo semestre del 45, cadde Francesco Binaero e a seguire, la prima donna ad essere uccisa, dopo la Liberazione, fu Clotilde Biestra il 10 maggio 1945 i cui genitori erano già stati massacrati dai partigiani. Quindi un medico di Quiliano nel novembre del 1945, Francesco Negro, omicidio anomalo, infatti egli era un antifascista che si era permesso di dissentire pubblicamente nei confronti di tutte queste stragi e ruberie che erano iniziati dopo il 25 aprile. Negro fu l’unico a poter vedere gli assassini, senza tuttavia identificarli, morì il giorno successivo per le ferite riportate all’addome. Poi toccò a Giuseppe Wingler il 4 dicembre 1945, ex squadrista già appartenente alle Brigate Nere, ucciso per la sua appartenenza al precedente regime, quindi Giuseppina Ferrari ex ausiliaria Saf (servizio ausiliario femminile) uccisa il 15 gennaio 1946 mentre era uscita a comprare il latte e Lucio Guerra ex Brigata Nera assassinato sul treno mentre sostava ad Albisola il 10 settembre 46 sempre con l’arma silenziata.
Un riferimento a parte merita Ernesto Lorenza ufficiale della G.N.R. (Guardia Nazionale Repubblicana) durante la ritirata da Savona, aveva in consegna la cassa dei valori di una colonna repubblicana, giunto in Valle Bormida ad un posto di blocco partigiano ad Altare, barattò la via di fuga consegnando la cassa. Questi soldi cambiarono di tasca e i soliti noti decisero di averne un guadagno personale, ma bisognava tappare la bocca ai testimoni. Se ne incaricò il killer della pistola silenziata che raggiunse il povero Lorenza ricoverato in ospedale a Savona e a liquidarlo con un colpo alla nuca, il Lorenza era bendato agli occhi e passò dalla vita alla morte quasi senza accorgersene. Nessuno dei presenti vide nulla, i poliziotti ausiliari partigiani che piantonavano gli ingressi del nosocomio, stranamente non si accorsero di nulla e l’assassino poté entrare, agire e uscire indisturbato. Alcuni dicono che molti infermieri del San Paolo fossero legati a doppio filo con i killer rossi.
Per indagare su questi fatti di sangue e altre atrocità che proseguivano senza sosta, arrivò un valente commissario di polizia da Como, Amilcare Salemi. Questo coraggioso funzionario iniziò ad indagare su alcuni personaggi legati al mondo dei partigiani comunisti e forse stava per raggiungere i colpevoli ma venne ucciso prima di concludere le indagini. Assassinato anche lui dal killer seriale della pistola con il silenziatore, che gli sparò alle spalle mentre cenava nella sala ristorante dell’Hotel Genova di Savona. I suoi collaboratori e la moglie minacciati e i documenti relativi alle indagini da lui condotte sparirono dall’ufficio in questura. Dopo il Salemi fu eliminata Rosa Amodio, una maestrina di appena ventiquattro anni, una bella ragazza mora, che era stata ausiliaria della Rsi, la giovane per qualche tempo stette lontana da Savona e poi, pensando di essere sicura da rappresaglie, tornò a casa e al suo lavoro di insegnante. Mentre una sera tornava a casa in bicicletta, fu affiancata da un’auto dal cui interno le spararono un solo colpo preciso, freddandola. La ragazza rimase a lungo sull’asfalto accanto alla sua bicicletta prima che alcuni passanti si fermassero a prestarle aiuto, ma era morta sul colpo, anch’essa colpita dalla pistola automatica con il silenziatore. Il suo fidanzato Lorenzo Calzia voleva trovare gli assassini per vendicarsi, ma una notte, qualcuno gli imbottì la porta di casa con un bel po’ di tritolo facendola esplodere e da allora smise di fare domande troppo indiscrete.
Tutti questi omicidi avevano una regia ed un apprestamento complessi, meticolosi e militari: c’era chi deteneva in custodia l’arma e la manteneva in efficienza, c’era chi decideva i bersagli, c’era chi consegnava lo strumento di morte e accompagnava il boia ad un sopralluogo prima dell’azione, c’erano gli osservatori che tenevano d’occhio il bersaglio e si allontanavano poco prima che il killer entrasse in scena e poi c’era chi riaccompagnava l’esecutore al sicuro creandogli un alibi e riprendendo la pistola in consegna. Solo chi aveva condotto una guerra clandestina contro i nazi fascisti poteva contare su una simile organizzazione.
A Savona l’opinione pubblica era terrorizzata, iniziarono le indagini, agli inquirenti arrivarono delle lettere anonime che indirizzarono i sospetti verso un sanremasco, Pietro Dal Vento, 55 anni via Tafoletti 38, panettiere con precedenti (18 mesi per furto, 2 anni per appropriazione indebita e dopo la guerra ancora una condanna per truffa), il quale appena interrogato si lasciò andare a una confessione, affermando di essere l’autore degli omicidi del Commissario Salemi e della Maestra Rosa Amodio, affermando di esserne stato l’autore, per motivi ideologici, in concorso con altri soggetti.
Dal Vento era una personalità molto particolare, soggetto a picchi caratteriali alti e bassi. Nel corso degli interrogatori, fece alcuni nomi di ex poliziotti ausiliari partigiani come complici e mandanti, i quali furono in parte, fermati e interrogati e successivamente in parte rilasciati e in parte prosciolti dopo un processo molto breve.
Chi rimase sempre «al gabbio» fu invece lui, Pietro Dal Vento con l’imputazione di duplice omicidio aggravato. Egli sapeva molto di più di quanto volesse fare credere ai giudici. Era capace di violenti accessi d’ira, insultava spesso i suoi legali e la stessa Corte gridando ai Giudici «burattini e fascisti» raccogliendo una condanna per ingiurie alla Corte, in carcere aggrediva il personale penitenziario e per questi gesti eclatanti, transitò e soggiornò in due manicomi criminali, Montelupo Fiorentino e Reggio Emilia dove tra l’altro venne curato per una grave forma di Tbc. Dal Vento seguiva una strategia suggerita da menti raffinare ed occulte, quella del caos, dichiarava e poi ritrattava l’indomani, destabilizzando la Corte.
Faceva nomi di complici che poi smentiva nelle udienza successive, sulla sue affermazioni si nutrivano molti dubbi. Seguiva il processo seduto in un angolo Del Gabbio, con i capelli neri tutti impomatati, un paio di baffetti e lo sguardo acuto da rapace, fumando una sigaretta dopo l’altra, nervosamente.
Dal Vento affrontò due diversi gradi di giudizio, nel primo a Savona fu condannato, unico colpevole, per duplice omicidio a trent’anni in primo grado nel novembre del 1951, grazie alla sua riconosciuta seminfermità di mente, quindi in appello alle Assise di Genova nel ’53, gli verranno comminati vent’anni e otto mesi, di cui due anni condonati. Dal Vento morirà di lì a poco divorato dalla tubercolosi, portandosi i nomi degli altri assassini nella tomba.
Pietro Dal Vento fece parte dell’intrigo della pistola con il silenziatore, non si sa bene con quale ruolo, ma ovviamente non aveva le caratteristiche per agire da solo. Gli altri personaggi, tutti poliziotti ausiliari, partigiani comunisti, che ebbero la chiamata a correo da parte di Dal Vento, non subirono alcuna condanna, anzi alle udienze tennero un atteggiamento minaccioso verso la Corte, intimidirono i testimoni e i legali delle parti civili che furono anche malmenati: era inconcepibile per certi soggetti che un avvocato patrocinasse i parenti di un fascista anche se assassinato.
Erano tutti conosciuti, ideologizzati in maniera cieca e ottusa, noti per essere inclini alla violenza pur di raggiungere i loro scopi: il potere ad un regime comunista e tanto per gradire un arricchimento personale sulla pelle delle loro vittime. Diventeranno dei simpatici ottantenni, ma con la coscienza molto greve e pesante per i crimini commessi.


Sono passati 64 anni e questi individui si sono quasi tutti estinti, ma l’ingiustizia suprema rimarrà sempre per quello che fecero e risiede nel fatto che mentre loro hanno vissuto per tanti anni dopo aver vissuto di prevaricazioni e di prepotenza nell’impunità, hanno impedito a moltissimi altri, per lo più innocenti, di vivere per un pezzo di vita lungo uguale. Loro, gli assassini, sono morti nel loro letto, con i parenti attorno, e gli altri nelle forre, per i boschi, nei canali con il dolore e il terrore che li attanagliava.
*storico del periodo

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