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Anniversario La Cina celebra un suicidio ideologico

È una Pechino trionfale quella che oggi celebra, con grandiosi festeggiamenti e parata militare tra i grattacieli con 56 reggimenti, nuovi missili intercontinentali e sistemi d'arma ad alta tecnologia, i 60 anni di una Repubblica Popolare la quale non ha nulla a che fare con quella proclamata il 1° ottobre 1949 da Mao Zedong. Malgrado il ritratto ancora sulla Città proibita, il Timoniere resta il grande assente dalla festa, da tempo divenuto icona pop, talismano portafortuna nella cianfrusaglia del bric-à-brac, da quando nel 1981 il partito condannò pubblicamente i suoi errori dal 1957 in poi. Si festeggia non lo Stato comunista del Timoniere, segnato da stragi e deportazioni di massa, incessanti campagne politiche, eguaglianza in basso nella miseria; ma, in una miscela di nazionalismo e di fierezza collettiva, la Cina in sé, con la sua antica civiltà, e l'odierna potenza economica raggiunta da quando, a fine 1978, furono avviate riforme e apertura da Deng Xiaoping: questi era tornato al potere dopo che Mao, poco prima di morire il 9 settembre 1976, lo aveva per la terza volta liquidato.
Il Timoniere morì poco dopo un terremoto che fece 200mila vittime, e prima di un'eclisse di sole: oscuro presagio di grandiosi eventi come un cambio di dinastia, avvenuto con l'ascesa dei riformatori e la liquidazione di tutti i dogmi maoisti. Il sistema resta autoritario, capace di durezze come la strage del 1989 sulla Tiananmen e di repressioni come quelle in Tibet e in Xinjiang. Ma con lo sviluppo, l'apertura al mondo, le comunicazioni, la crescita dell'economia privata, il cinese dispone di spazi di libertà individuale come ha raramente avuto nella sua storia. Allo sventolio del Libretto rosso si è sostituito il fruscio e il profumo del denaro, al dogma "meglio rosso che esperto" il pratico "non importa che il gatto sia nero o bianco, purché prenda i topi"; al "servire il popolo", il grido di "arricchirsi è glorioso". La vera svolta è stata proprio dopo la strage della Tiananmen. Con la scomparsa in Europa dei regimi socialisti nel 1989, e dell’Urss nel 1991, per non fare quella fine, Deng lanciò nel '92 riforme più profonde, con totale apertura all'iniziativa privata e a investimenti stranieri (700 miliardi di dollari in dieci anni). Suicidio ideologico del partito, al fine di compensare col benessere la mancanza di libertà.
Da allora, la crescita tumultuosa. Reddito pro capite annuo da 250 dollari nel 1980 a tremila nel 2008, circa seimila a parità di potere d'acquisto. Primati nel commercio estero, con l'export e la caccia nel mondo a materie prime; riserve moltiplicate da 14 milioni di dollari nel 1978 a oltre duemila miliardi oggi, metà dei quali in buoni del Tesoro Usa, branditi nelle dispute con Washington. Ridotti oggi a 30 milioni i 350 milioni di persone che nel 1980 non avevano "di che mangiare, di che vestirsi, di dove dormire". Affermazione di nuovi ceti sociali: oltre 350mila milionari in euro, classe media di circa 300 milioni, ma anche una sterminata popolazione rurale con reddito annuo di 700 dollari. Dopo gli iniziali vantaggi per tutti, siamo da tempo a tempo vincitori e vinti, in un capitalismo selvaggio.
Compiuto il suicidio ideologico, il partito si dice ancora comunista, malgrado il settore privato costituisca il 70 per cento del Pil. Ma è solo mera struttura di potere autoritario, in cui, su 73 milioni di iscritti, vi sono tre milioni di capitalisti. Non più solo partito di contadini e operai, ma anche di super ricchi.

Il contrasto tra monopolio politico e pluralismo economico è la grande incognita interna, mentre chi da noi lamenta lo strapotere internazionale Usa, dovrebbe preoccuparsi dell'incombere sul mondo di un sistema cinese di potere autoritario, cinico, incontrollabile.

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