da Milano
Fu nei fatui anni Ottanta che la video-music - così la battezzarono i catecumeni del nuovo culto - dilagò sul mercato, confiscandolo. Non che lidea fosse nuovissima: dai greci ai latini, dalle laude allopera lirica e del resto anche nella canzone lidea daffiancare parole, note e immagini aveva corso da millenni. Ma ora avvenne un singolare sovvertimento: limmagine non si contentò dessere complementare alla musica, cercò e ottenne un protagonismo che finì per ridurre la canzone al ruolo, per dirla con Adriana Lecouvreur, di umile ancella. Si arrivava a scrivere testi e melodie in funzione del video che ne sarebbe stato tratto, e non viceversa: capovolgimento tipico dun decennio che segnò il trionfo dellapparire sullessere, del vedere sullascoltare, del glamour sul pathos.
Sostanzialmente, molta parte dei video nati in quellepoca si divideva in due filoni. Da un lato quelli che illustravano didascalicamente ciò che i testi cantati raccontavano: pleonastici, dunque inutili; e quelli le cui immagini nulla avevano a che fare con la canzone che «illustravano»: dunque fuorvianti. Questa fu lobiezione di molti di noi, convinti che la musica, specie se integrata da un testo, sillustra splendidamente da sé - occorrono forse dei filmati, per mostrarci le magie «visive» della Pastorale di Beethoven o della Creazione di Haydn? -, e che linserimento di immagini costituisce un freno alla libera fantasia di chi ascolta. Poi, però, si scoprì che nel gurgite vasto dei videoclip, vomitati sul mercato dallurgenza promozionale dellindustria, galleggiava qualche autentica gemma. Basta citare i grandi registi - Antonioni, Bolognini, Spike Lee, Lelouch - che non disdegnarono di dedicarsi al genere, e ricordare alcune opere fondamentali per estro visionario, stile, ironia: a partire dal prototipo del 32, Minnie the Moocher di Dave Fleischer, che affianca alla verve di Cab Calloway il mito di Betty Boop, per arrivare ai Beatles di Strawberry fields forever e del Magical mistery tour, al celeberrimo Thriller di John Landis con Michael Jackson, fino al caravaggesco Losing my religion dei Rem, a Bohemian rapsody dei Queen, a La domenica delle salme dedicato da Giuseppe Tornatore alla canzone di De André, a Fotoromanza di Gianna Nannini con la regia di Antonioni.
Ricordarci tutto ciò è merito di Domenico Liggeri, giornalista, critico di cinema, autore con Chiambretti del televisivo Markette. Che alla Musica per i nostri occhi (Storie e segreti del videoclip) dedica per le edizioni Bompiani il volume più ponderoso mai uscito sullargomento: ottocentosettantotto pagine fitte di esempi, schede, storiografia, analisi dun fenomeno letto con una passione che qua e là sovrasta il rigore scientifico, ma colto nei suoi aspetti più svariati. Dai presupposti storici (Liggeri li fa risalire a Wagner, ma sono di gran lunga antecedenti) al ruolo dei videoclip nel jazz, nel pop, nel rock, il libro spazia ancora dai «primi autori videomusicali» ai rapporti col cinema, la tivù, le arti figurative, la fotografia, i cartoni animati, la poesia, i mutamenti del comune senso del pudore e perfino ai legami col razzismo, leterno femminino, lomosessualità, i telefoni cellulari divenuti canale di diffusione della musica mercificata.
Il che nulla toglie, va da sé, allinteresse culturale di quei video che alla funzione prettamente promozionale e alla bassa qualità dei brani musicali - vedere la programmazione di molte televisioni specializzate nel genere - preferiscono la qualità artistica o quanto meno il decoro formale. A questo versante più nobile della «Musica per i nostri occhi», ci rammenta Liggeri, hanno contribuito non soltanto grandi registi, ma anche alcuni musicisti variamente versati nellarte delle immagini: da John Lennon a David Bowie a Prince.
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