Un’apocalisse moderna con un pizzico di banalità

Ultimo esempio di apocalittica da festival (Venezia, 2006), I figli degli uomini di Alfonso Cuaròn, tratto dal romanzo di P.D. James, ipotizza un realistico 2027 di crollo demografico e immigrazione/invasione, la cui descrizione è il momento migliore del film. Ma anziché connettere questo declino all'arcadia sessantottarda di droghe e canzoni dei Beatles, evocata dal nostalgico ottantenne interpretato da Michael Caine, ve la oppone, come il futuro non derivasse dal passato. Ci sono anche banalità nella descrizione di Cuaròn: cortei di miliziani islamici, come se per un verso la Londra di domani fosse la Beirut di oggi; Lager tenuti da militari britannici, come se per l'altro verso la Londra di domani fosse l'Auschwitz di ieri. Fatto sta che la società opulenta si sbriciola. Chi salverà il mondo? I figli degli uomini immagina che, in tanta desolazione, cresca qualcuno nel ventre di una donna dalla pelle nera e senza marito. L'incantesimo è dunque rotto, dopo diciotto anni di sterilità mondiale...

Cuaròn imbottisce il film di metafore e allusioni, poi le spiega, raddoppiando l'errore. E il prevedibile finale rovina quel po’ di arcano che rimaneva.
I FIGLI DEGLI UOMINI di Alfonso Cuaròn (Usa/GB, 2006), con Clive Owen, Michael Caine. 110 minuti

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