Illuminato il monte dei Cappuccini, d’accordo, anche via Roma, come sempre; la stazione di Porta Nuova incomincia a riprendere i connotati smarriti per anni, ma c’è poco da ballare di qua e di là del Po. Diceva Valletta, quando l’azienda stava in cima all’Italia: ciò che va bene alla Fiat va bene al Paese. Dice Marchionne, quando l’azienda medesima è scesa dalla cima ma ha evitato il precipizio: se va bene al Paese, va bene alla Fiat. Mezzo secolo per cambiare una filosofia, mezzo secolo per ribaltare la realtà, mezzo secolo per osservare Torino che cambia e rimane uguale a sé stessa, in disparte sulla carta geografica nazionale, al centro di cronaca e di storia che non possono tagliarla fuori.
Scomparsi gli Agnelli restano gli eredi, non tutti alla ricerca del paradiso perduto. Torino non vive più di rendita, i punti di riferimento sono cambiati, il monarca era il prestigio ma, come dicono i piemontesi più acidi e pragmatici, il prestigio non fa business, boia fàus, boia falso.
E allora? Allora il profilo di luce sugli edifici dei Giochi Olimpici mette malinconia, la festa è finita, si fanno i conti con i debiti, coriandoli bagnati di proclami fumosi, di propagandiste del bel vivere e del mal spendere, i Giochi invernali del 2006 avrebbero rilanciato la città ma laddove era un alveare di uomini, atleti, sponsor, televisioni, oggi sembra un presepe malinconico, l’immagine di una città-Lego, sempre giustamente nostalgica del proprio passato risorgimentale, nei caffè ottocenteschi, lungo i portici, negli edifici storici, ma in conflitto continuo con il Paese che ha profumi diversi e con un risveglio quotidiano nebbioso.
Torino si chiede ancora quale potrà essere il proprio futuro, la Fiat resta la bussola di ogni impresa ma è davvero un’altra epoca, anche nello sport, la Juventus ha conosciuto il massimo della recessione, la condanna alla B e la vergogna pubblica del malaffare, il Torino barcolla, ansima, si rialza, scivola, sembra un altro millennio quando la Gazzetta dello Sport titolava, nel suo editoriale, «Ciau Turìn», alludendo allo strapotere delle due che salutavano il resto della comitiva nazionale. La crisi del Paese qui si trasforma in depressione, hai voglia a parlare di ottimismo, la Feroce, che sarebbe la Fiat nel gergo datato degli operai, si è ripresa, la Cinquecento ha abbagliato tutti ma adesso finisce nella coda ferma dell’Europa, questa è la sua jella, proprio quando sembrava che il tunnel fosse finito ecco la curva improvvisa, anzi il tornante, tutti giù per terra, i fiattini maledicono il mondo, loro che a colazione parlavano come quelli di Wall Street oggi sono casalinghi disperati.
Mercedes Bresso, governatore del Piemonte, con quel nome che sembra una provocazione scherzosa per l’azienda madre, annuncia che Torino sta soffrendo e chiede una mano al governo, fa parte del repertorio di sempre; Chiamparino, il sindaco di buone idee, segue a ruota ma su un problema parallelo che parte dalla crisi improvvisa di un’azienda straniera, Motorola, che ha deciso, dopo nove anni di attività nel centro ricerche con una sovvenzione pubblica sostanziosa, di tirare giù la saracinesca della sede torinese, nel breve spazio di un mattino, lasciando a spasso, senza aver pagato i contributi, 370 lavoratori di ogni tipo; poi la Dayco e Bertone e Pininfarina, un altro simbolo, quest’ultimo, come Fiat, della città, di una famiglia che si ritrova, dopo la morte drammatica, improvvisa di Andrea, con debiti vicini ai 700 milioni di euro. In contemporanea San Paolo, nel senso di banca, stanzia 400 milioni di euro per un grattacielo di oltre trenta piani, nuova sede monumentale, appena al di sotto, per altezza, della Mole Antonelliana, ma fa i conti, non soltanto bancari, con le critiche dei clienti e le decisioni del partner. È un film già visto eppure sembra cambiato il finale.
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