Era un ragazzino Abraham B. Yehoshua nel 1948 quando Gerusalemme era sotto assedio. Il suo primo romanzo - «L’amante» - racconta di un marito tradito che cerca ossessivamente il suo rivale in amore sullo sfondo del conflitto dello Yom Kippur, nel 1973. Durante la guerra dei Sei giorni, nel 1967, era un parà. Un giorno nel 2002, mentre era a pagina 50 del suo nuovo romanzo, incentrato su un cadavere abbandonato all’obitorio dopo un attacco suicida, ha saputo che un’amica era appena morta in un attentato.
Si confondono la vita e l’opera di Yehoshua, tra i più noti scrittori israeliani: raccontano un conflitto lungo decenni. Il pacifismo è il suo campo. Ha firmato gli accordi di Ginevra, iniziativa non ufficiale lanciata nel 2003 che proponeva terra in cambio di pace. Nel 2006, assieme ad Amos Oz e David Grossman, chiese un cessate il fuoco immediato mentre Hezbollah lanciava katiusha sulle città del nord e Israele bombardava i sobborghi di Beirut. Oggi, auspica la fine dell’operazione «Piombo fuso» a Gaza, ma giustifica l’intervento dell’esercito, come la maggior parte degli israeliani.
Lei chiede una tregua, ma per molti israeliani quest’operazione è inevitabile.
«Per la popolazione l’azione è necessaria. L’inizio è accettabile, ma non può continuare a lungo».
Perché era inevitabile?
«Se al termine della “tregua” Hamas avesse proposto di rinnovarla ci sarebbero state trattative mediate dall’Egitto. Ma hanno detto: “Basta” e hanno iniziato a lanciare razzi. Quando ricominciano a sparare, cos’altro puoi fare?».
Cosa si aspetta?
«Il primo attacco era giustificato: per eliminare le postazioni di lancio dei razzi, i quartier-generali. Adesso la questione è la continuazione dell’operazione. Lo dico sempre: questi non sono soltanto i nostri nemici, ma sono anche i nostri vicini. E c’è stato un tempo in cui avevamo trovato un modus vivendi. Per questo non dobbiamo esagerare ora: occorre dichiarare un cessate il fuoco, anche unilaterale. Se Hamas risponde positivamente, dobbiamo iniziare a negoziare attraverso l’Egitto».
Lei ha più volte raccontato lo stato d’animo di un Paese attraverso i suoi romanzi. Qual è oggi quello stato d’animo?
«Fin dall’inizio il mondo arabo ha rifiutato la nostra esistenza. Il tempo passava e le guerre si susseguivano. Abbiamo combattuto nel 1967, abbiamo conquistato territori e costruito insediamenti, finché l’Egitto nel 1979 ha per primo accettato la formula “pace in cambio di territori”. Funziona ancora. Abbiamo fatto errori, ma ci sono stati gli Accordi di Oslo, il riconoscimento dell’idea di due Stati vicini. Questo è il compromesso base. Poi è arrivato Hamas e c’è stata una retromarcia. Ci siamo ritirati da Gaza e invece di ricostruire, attirare soldi, hanno iniziato a lanciare razzi. E lanciare razzi è stupido, perverso, inefficace. È terribile per gli abitanti del sud d’Israele, ma impone sofferenze maggiori a Gaza. Dobbiamo fermare tutto questo. Persino la maggior parte del mondo arabo disapprova il comportamento di Hamas, anche se li considera fratelli nella fede, fratelli arabi. Possiamo biasimare Israele per gli insediamenti in Cisgiordania, ma non per la situazione a Gaza».
Come vedono oggi il loro futuro gli israeliani?
«Gli israeliani pensano sia possibile: alla fine ci sarà un accordo con i palestinesi. Gli arabi ci riconosceranno. Pensi soltanto all’iniziativa di pace araba (presentata dai sauditi a Beirut nel 2002, propone la normalizzazione dei rapporti tra Israele e tutti i Paesi arabi in cambio di terra ai palestinesi, ndr). Trent’anni fa questo sarebbe stato impensabile. La via è lunga e difficile, ma alla fine gli arabi ci riconosceranno. Persino la Siria sarebbe pronta. E poi c’è il fattore Obama, in cui personalmente ripongo tante speranze. Abbiamo bisogno della pressione internazionale, da parte degli Stati Uniti e dell’Unione europea. Non sono pessimista, ma dobbiamo allontanare tutti gli elementi che vogliono fare passi indietro in Medio Oriente. Ci sono politici all’interno dell’Autorità nazionale del presidente Abu Mazen che sono furiosi con Hamas, furiosi».
Cosa deve fare l’Anp?
«Si deve arrivare a un accordo molto serio. I palestinesi devono riuscire a controllare i terroristi con l’aiuto del mondo arabo. Israele dopo il ritiro da Gaza del 2005 ha paura di cedere altri territori. Ma alla fine in Cisgiordania dovrà comunque farlo».
Vorrebbe dunque una forza di interposizione araba a Gaza?
«Eccome se
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