Cultura e Spettacoli

Arbasino, la difficile arte di essere frivoli

N on so se Alberto Arbasino rientri nei tre stadi dello scrittore da lui stesso indicati: promettente talento, solito stronzo, venerato maestro. È sempre stato un genio, Alberto, fin da quando nel 1963 se ne uscì con Fratelli d’Italia, e tuttavia oggi chi può essere davvero un venerato maestro? Oggi che si fanno spallucce anche di fronte a Proust o Kafka, a Flaubert o Joyce? Tantomeno incuterà la soggezione dovuta il Meridiano Mondadori appena uscito, perché, dopo averne dato uno a Camilleri, un Meridiano non si nega a nessuno, come il Nobel, che Alberto non avrà mai, troppo bravo. Il volume è curato da Raffaele Manica, professore di letteratura che incontrai anni fa a pranzo in un ristorante romano, quando già era impegnato a curare Arbasino, ma a me sembrava dovesse essere curato Manica, era disperato e sospirava: «Mi cambia sempre le date, i riferimenti, ogni giorno si ricorda qualcosa di nuovo e devo ricominciare daccapo». Ci ha messo meno Arbasino a scrivere i suoi capolavori che Manica a scrivere le note ai testi, e non credo che il curatore sopravviverà al secondo volume previsto, Arbasino sì, è immortale a prescindere. Nell’edizione, che comunque dovete correre a comprare prima che sia cartonata e svenduta in edicola per fare arredamento, troverete i racconti (con un inedito), il meta-romanzo d’amore L’anonimo lombardo («un disperato recupero del “sense of humor” e del Kitsch»), la «cassetta d’attrezzi di pronto soccorso» letterario Certi romanzi (purtroppo senza La Belle Époque per le scuole, testo abbinato all’edizione Einaudi del 1977) e Fratelli D’Italia del 1963, sebbene Arbasino lo abbia riscritto tre volte fino a renderlo un romanzo di oltre mille pagine. Tra l’altro Alberto è l’unico scrittore italiano vivente affetto dalla malattia della riscrittura senza fine oltre a Aldo Busi, dove non si sa mai quale edizione di Seminario sulla gioventù o di Vita standard sia quella definitiva e più «riveduta e corretta dall’autore», benché le revisioni di Arbasino siano come l’acqua per lo squalo, non può fermarsi senza morire, e al contrario di Busi nascondano, per paradosso, una dichiarata umiltà dell’autore verso l’opera che si è dato di scrivere. In quanto «non esiste una Struttura definitiva: è un’illusione pericolosa, tombale; e anche saccente. Sono tante, le stesure probabili... Bisognerà staccarsene in tempo, rinnegando il perfezionismo maniacale, prima di perdere un certo charme del non finito che deriva ancora dalla corsa à bâtons rompus». D’altra parte si sa, ogni grande libro cambia a ogni rilettura, figuriamoci a ogni rilettura di riscrittura. Quindi per essere davvero eroicamente filologici dovete, come me, avere le altre edizioni (molte delle quali comprate a caro prezzo da antiquari vampiri, con care dediche di Arbasino a questo o quello, dai noti agli ignoti, da Angelo Maria Ripellino a una certa Lia «con un grande abbraccio», mai una dedicata a me, per me però tante generose cartoline a ogni puntuale recensione, con inevitabili precisazioni filologiche dove non ho colto questa o quella citazione, e l’ironia di ammettere «però, caro Max, non la ricordo neppure io») e confrontarle per meditare le riscritture, gli ampliamenti, le ristrutturazioni. Per esempio quando l’Elefante, il protagonista di Fratelli d’Italia, va a Napoli, leggiamo nell’edizione meridianizzata del 1963: «Io poi a Napoli vorrei starci sempre il meno possibile. Mai combinato niente e sempre litigato con tutti. Una depressione, sempre. Veramente è una città che non mi dice niente, perciò trovo inutile venirci. Non so cosa farmene del solo mediterraneo e dell’eredità classica e dell’architettura normanna e delle semplici gioie della vita contadina e della pizza alla pescatora. Commedia dell’arte, per me no, grazie». Nel 1976 il brano si allunga, l’opera è simile a una chiesa in cui compaiano nuove arcate, nuovi capitelli, più raffinate cesellature, bifore sulle trifore già installate, barocchi update autoironici, autostoricizzanti, autoscompattanti; l’ultima frase citata diventa quindi «Commedia dell’arte, no grazie, mi fa vomitare», mentre nella riscrittura del 1993: «Commedia dell’Arte, per me, no grazie (devo mettere un piccolo sticker sulla macchina?), mi fa eruttare sul golfo sfasciato: se si ricorda che era la Copacabana dei classici e dei romantici...». Ho citato a caso, non prendetelo per un antimeridionalista, lo è a tutti gli effetti, come però ne ha per Roma, per Milano, per Londra, Berlino o New York o Los Angeles, perfino per Parigi (o cara), perché tutto mondo è paese e ogni paese è un paese piccino picciò per signore mie, al cospetto dell’Elefante. Maestro di stile, d’ironia, di anti-ideologia per eccellenza, il più frivolo e il più colto, autore degli unici romanzi davvero «postmoderni» (se il postmoderno non fosse la minestrina ideologica che è, inventata da chi non ha mai saputo essere moderno né essere Arbasino), tra giri di frase che rimandano a mille altri libri e letture e riflessioni e continue smarcature dall’arretratezza culturale italiana, siccome perfino durante il fascismo bastava imparare le lingue e fare una gita a Chiasso per non piangersi addosso. Inviso da sempre, pertanto, a conformisti e conformismi della cultura, distruttore di cliché secolari e vivisezionatore di luoghi comuni, sommo menefreghista rispetto a ogni levata di scudi e scudetti, rispetto a ogni corso e ricorso e ristrettezza di vedute già viste e straviste. Fin da quando polemizzava con la retorica degli intellettuali impegnati e anche con Pasolini, il quale gli dava del cinico e del fascista, tanto quanto a Proust davano dello snob perché non scriveva libri per gli operai. Alberto, così indecifrabile e superiore, così imperdonabilmente esteta, lo era già trentenne, negli anni Sessanta, quando nelle scorribande dei fratelli d’Italia ci si chiedeva che senso avessero l’arte e la cultura per poi «trovare la propria moralità sui giornali? Se quel giorno lì non lo compravi?». Contava, invece, continuare a riflettere su Forster e Musil, Proust e Stravinski, Freud e Brecht, e «senza seguire i colonnati pomposi e dogmatici che non portano a niente», e pure, in fondo, giocare con l’essenza del linguaggio come Joyce per capire qualcosa della commedia umana, e magari chiedersi: «And I schschschschschsch. And did you chachachachacha?».

Oh, Alberto, mon semblable, mon frère: infatti è arrivato splendido fino agli ottant’anni e, va da sé, non risulta tra i firmatari dell’appello di Repubblica per la libertà di stampa, pur essendo una firma di Repubblica, o meglio essendo Repubblica la stampante di Arbasino, una come un’altra, e il quotidiano resterà nella storia per questo, non per gli appelli, come sperano. Così si sono accontentati di Camilleri, Saviano e Ammaniti, eppure cosa avrà pensato Mauro, il direttore Ezio? Si sarà detto che Alberto è un venerato maestro o il solito stronzo?

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