Argentini d’Italia Un mago e mezzo fra tanti fallimenti

Da Cesarini a Simeone, solo Herrera e Pesaola si salvano tra i tecnici venuti dal Sud America

Argentini d’Italia 
Un mago e mezzo 
fra tanti fallimenti

La comuna Baires dell’Inter ha indicato un cognome: Bielsa. Lo spogliatoio di Appiano Gentile mormora, sussurra, suggerisce, a volte licenzia. L’Argentina continua ad avere il suo fascino antico, ha esportato artisti, tanghisti, soubrettes, calciatori, allenatori. L’astuzia sudamericana trova la sua esaltazione, Gianni Brera sosteneva che gli argentini non sono altro che italiani che sanno parlare bene lo spagnolo ma credono di essere inglesi. Perfetto, ne troviamo conferma sfogliando il diario, l’album delle figurine, accendendo il televisore.

Alcuni fenomeni, altri randagi, una storia che dura da sempre, dai tempi di Renato Cesarini e della sua brillantina, di Luisito Monti e del suo piede fratturato ad Highbury, di Luis Carniglia che odiava Helenio Herrera al punto da rispondere così alla domanda sulla squadra avversaria («L’Inter? Oficial o par amigos? Oficial: grande equipo, grande juego, grande football. Par amigos: mierda y mierda y mierda»); Francisco Ramon Lojacono, il toro di Baires, una faccia da pugile, faceva tremare le barriere per il suo tiro micidiale sui calci di punizione; Juan Carlos Lorenzo, un altro più furbo che bravo, richiamato alla Lazio da un Chinaglia disperato ma ancora più disperato licenziato dopo sette sconfitte sette consecutive; Oscar Massei docente di calcio allo scolaro Fabio Capello nella Spal, Humberto Maschio, uno dei tre angeli (con Sivori e Angelillo) dalla cara sucia, dalla faccia sporca, Bruno Pesaola, il più intelligente, il più napoletano dei napoletani, il più ligure dei liguri, il più perfido argentino degli argentini perfidi («Ramon Diaz? Viene da un paese dove la gente non parla, fischia…»); Carlo Bianchi che gli argentini (e qualche stolto italianuzzo), pronunciano «Bianci» essendo l’acca sempre muta nell’alfabeto spagnolo; Daniel Passarella, el capitano de l’equipo campeon del mundo, come veniva presentato, in conferenza stampa, al momento di annunciare la formazione della nazionale, da Luis Cesar Menotti, detto el flaco, più sigarette che titoli vinti, volpe di panchina e di relazioni pubbliche addirittura alla Sampdoria; l’opposto di Hector Cuper di cui non si ha traccia ad Appiano Gentile perché aveva la faccia grigia come il cappotto che indossava e perché aveva messo in discussione sua maestà Ronaldo. Si potrebbe dire di Sensini e, per arrivare alle ore ultime, di Diego Simeone, toccata e fuga a Catania, terra inedita di argentini furbastri.

Tango e bluff, dunque, fatta l’eccezione altissima di Helenio Herrera che sta all’Inter e al calcio internazionale come e più di qualunque altro. Lui svoltò, la categoria dovrebbe erigergli un monumento e accendere un cero, ogni mattina, dinanzi alla lampada votiva. Con il mago il ruolo dell’allenatore si trasformò da semplice dipendente, ginnasiarca (vedi alla voce Heriberto Herrera, paraguagio) in manager superpagato, motivatore, provocatore: quattro titoli in Spagna, tre in Italia, due coppe del re, una coppa Italia, due coppe dei campioni, due intercontinentali, due coppe delle fiere, un torneo angloitaliano, dunque l’argenteria migliore, potrei dire «argentina» a differenza di molti dei compatrioti suoi di cui l’elenco già illustrato.

Insomma se dovesse arrivare Bielsa, figlio della borghesia

benestante argentina, fratello di un ex ministro degli esteri, gran conoscitore di football, sarebbe un altro passo di tango interista. Per la cronaca curiosa, Bielsa si chiama Marcelo, un nome già passato da Appiano Gentile.

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