nostro inviato Cannes
Nel film di Denys Arkand L'âge des tenebres, Diane Kruger incarna Veronica Star, una visione che popola i sogni notturni del protagonista consentendogli di fare, da autarchico, quello che con la moglie non può più fare da anni. A vederla da vicino, si capisce subito il perché: un corto abito bianco a balze che le lascia scoperte le lunghe gambe, dei tacchi che la innalzano prodigiosamente, i capelli raccolti a crocchia, occhi grigi, lineamenti perfetti e algidi, una creatura dell'immaginario più che della vita reale. Non è un caso che parli poco e, anche parlando, non dica nulla: succede così anche nella finzione cinematografica, e una volta tanto realtà e fantasia coincidono.
Chiamata a chiudere fuori concorso la sessantesima edizione del Festival di Cannes, la pellicola di Arkand si scontra con la stanchezza e le defezioni dei giornalisti: così, alla conferenza stampa siamo in pochi e se sul palco siedono il regista e gli interpreti principali, l'intero cast occupa la prima fila della platea e in proporzione risulta più numeroso della stampa presente all'incontro. È un peccato, perché Arkand è un conversatore interessante, Diane Kruger assolve la sua parte di icona con naturalezza e l'altra figura femminile chiamata a riempire le notti immaginarie del protagonista, Emma de Caunes, se non ha la bellezza di Diane è comunque bella e spiritosa e quindi fa la sua figura.
Già autore di Il declino dell'impero americano e di Le invasioni barbariche, premio Oscar per il miglior film straniero nel 2003, in L'âge des tenebres, L'età delle tenebre, Arkand in qualche modo continua e/o completa il ciclo iniziato con i due precedenti film, una sorta di radiografia della società occidentale, i suoi malesseri, le sue inquietudini. «I miei film partono sempre da una considerazione, un convincimento, ma non ho mai pensato che debbano mandare un messaggio, per i messaggi c'è la Western Union, ci sono le agenzie specializzate. Questo non significa non aver niente da dire sulla società, ma più semplicemente che lo scopo dei miei film è raccontare una storia. Anche per questo sono un mix di comico, grottesco, tragico e mélo... Per essere un militante, inoltre, mi manca la fede nelle mie idee. Spesso mi sembrano più interessanti quelle della mia controparte...».
Nel film Jean-Marc (Jean-Marc Leblanc sullo schermo) è un impiegato statale, padre fallito, marito insignificante e vessato, respinto a letto e costretto a fumare di nascosto, che fugge la realtà inventandosi nel sogno altre vite: ora grande scrittore, ora grande attore, ora grande guerriero, sempre grande amatore... «Quando si sogna, tanto vale farlo alla grande, non ha senso porsi dei limiti. Il sogno, naturalmente, copre una serie di vuoti, affettivi, sessuali, professionali. Siamo un po tutti insoddisfatti e non c'è una ricetta per farci stare meglio. Per esempio, io faccio film, ho trovato la mia salvezza nell'arte. Quello che salva Jean Marc è la speranza».
Non è la prima volta che Arkand è a Cannes, non è la prima volta che, fuori concorso, un suo film chiude il Festival. «È un ruolo che non mi dispiace. L'unico rimpianto a non essere in gara ce l'ho per Jean-Marc Leblanc.
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