Armistizio Bossi-Maroni dopo il veto a Bobo 30 anni di guerra e pace

Il Senatùr stoppa la rivolta della Lega e firma la tregua con Maroni. La prima rottura tra Umberto e Bobo fu subito ricucita. Ma oggi "cerchio magico" e "maroniti" sono lontani. Il dissidente Leonardo Facco: "Macché liti, è solo il gioco delle parti"

Armistizio Bossi-Maroni dopo il veto a Bobo 30 anni di guerra e pace

La nemesi. Sono passati 17 anni da quando - era il dicembre del 1994 - Bossi e Maroni arrivarono ad un passo dalla rottura. Amici, sodali fin dalla prima ora senza una lira in tasca, mille giornate passate ad imbrattare i cavalcavia delle autostrade del Varesottto e della Bergamasca con slogan autonomisti quando ancora la Lega Nord non era neanche lontanamente un progetto. Era il 1987. Pochi anni dopo - era il dicembre 1994 - era Bobo a non condividere la linea del Senatùr, deciso a staccare la spina al primo governo Berlusconi. Oggi è l’esatto contrario. Con Bossi - e i suoi fedelissimi del cosiddetto «cerchio magico» - decisi a preservare l’asse Pdl-Lega e l’ex ministro dell’Interno che immagina invece un Carroccio solitario alle prossime elezioni.

Nemesi e paradossi. Che hanno portato al «redde rationem» nonostante ancora ieri i due preferissero buttare la polvere sotto il tappeto. Bossi dicendo che «non c’è alcun veto su Maroni» e l’ex ministro dell’Interno assicurando che «il chiarimento c’è stato». Balle. Lo scontro c’è stato e - nonostante le telefonate delle ultime ore - c’è ancora. Non solo perché lo vuole il Senatùr, ma anche perché a trascinare il leader del Carroccio sulla via di un suicida «redde rationem» (suicida perché la Lega ne uscirà a pezzi...) c’é il cosiddetto «cerchio magico». Cioè tutti quei «famigli» di Bossi che sono destinati ad avere l’ultima parola sulle liste elettorali. Ovvio che in molti preferiscano tacersi.

Amore e odio. Per dirne una, l’ex ministro dell’Interno - almeno fino ad oggi - è stato l’unico ad arrivare allo scontro frontale con Bossi e ad un passo dalla «purga». Era il 1995. Allora era Maroni a contestare al Senatùr la scelta di aver «mollato» Berlusconi e fatto cadere il suo primo governo. Oggi, 17 anni dopo, le parti si invertono. Con un altro dettaglio. Quello che sta andando in scena in queste ore non è tanto uno scontro tra Bossi e Maroni come accadde nei primi mesi del 1995, ma il risultato di un conflitto sotterraneo che da anni vede Maroni su posizioni distanti rispetto a quelle del «cerchio magico». Non è tanto il Senatùr, insomma, ad aver scatenato la guerra nucleare. Quanto i suoi «famigli», da Reguzzoni alla moglie del Capo, Manuela Marrone, passando per il figlio prediletto, Renzo. Sono loro a comandare nella segreteria federale di via Bellerio e sono loro che alle prossime elezioni decideranno le candidature.

Eppure quello tra Umberto e Roberto è - o è stato - un rapporto di grande amicizia. Un vero e proprio sodalizio. I due sono insieme già nell’estate del 1979, quando si presentano nello studio dei notai Bortoluzzi di Varese e firmano l’atto costitutivo della Società editoriale Nord Ovest. E «Nord Ovest» sarà il nome del foglio che verrà stampato senza troppe pretese, di fatto la prima testata pre-leghista. «Non era il federalismo ad incuriosirmi, quanto la possibilità di fare il giornalista», ricorderà più tardi Maroni. Ma la folgorazione è nei fatti se il futuro ministro dell’Interno contribuisce di sua tasca a ripianare i debiti del movimento nonostante abbia preso altre strade. Bancario prima, poi assunto alla Avon - multinazionale della cosmetica - e infine, nel 1989, lanciato da Bossi come segretario provinciale della Lega autonomista Lombarda a Varese. Inseparabili. Il Senatùr lo ricorda più volte nelle sue nottate con i militanti per le valli della «Padania» passate a spipacchiare toscani e «pucciare» patatine Crik Crok nella Coca Cola. L’aneddoto più ripetuto è ormai noto: Maroni guida sull’autostrada e scarica Bossi con vernice e pennello per imbrattare un cavalcavia con slogan autonomisti, arriva una pattuglia delle forze dell’ordine che intima il «fermi o sparo» e insegue il futuro leader del Carroccio che scavalca una rete tirandosi addosso un barattolo di vernice e - racconterà Bossi - «sente due o tre proiettili che gli fischiano sopra la testa».

Amore ma anche odio. Genuino quello del 1994, quando il Senatùr «manda a casa» il primo governo Berlusconi. A guidare la fronda c’è proprio Maroni, che di quel governo era vicepremier ma anche ministro dell’Interno. Corsi e ricorsi. Nei giorni dello strappo con il Cavaliere è lui a predicare cautela. E pensare che, scherzi del destino, Maroni è cresciuto con il manifesto sotto braccio, partecipando al Movimento studentesco con l’eskimo d’ordinanza. Da giovane vota pure Democrazia proletaria: l’imprinting, al liceo, glielo dà il suo professore di storia e filosofia, Cesare Revelli, marxista più che convinto e soprattutto convincente. Ancora una similitudine con il presente: il 19 dicembre 1994 nasce quella che i giornali battezzano come la corrente dei «maroniani», una quarantina di parlamentari contrari alla mozione di sfiducia a Berlusconi.

Uno strappo lacerante. Dopo Natale, il 27 dicembre, i «maroniani» - eh sì, c’erano anche allora... - presentano al Senatùr un documento in tre punti. La rottura, intanto, inizia a far male, anche perché ogni giorno c’è un parlamentare che lascia: chi per Forza Italia, chi per An, chi per il Ccd. Il 13 gennaio il Senatùr rompe gli indugi: «Maroni si trova sotto la pressione di Berlusconi. Si è innamorato del Viminale».

Tra il 10 e il 12 febbraio 1995 il Carroccio si riunisce al Palatrussardi di Milano per il terzo Congresso federale. Intanto, i parlamentari leghisti che lasciano il partito arrivano a 53 (quasi il 30% del totale), una vera e propria diaspora. Dopo 15 anni di sodalizio e otto difficili mesi al governo l’amicizia tra i due vacilla per la prima volta. Al Palatrussardi Maroni parla tra i fischi e annuncia le sue dimissioni da deputato (che saranno respinte dalla Camera il 26 aprile 1995 e mai ripresentate). I delegati sventolano eloquenti striscioni: «La Lega ce l’ha duro e i maroni ce li ha sotto». Bossi non si risparmia: «A Roberto per anni ho scaldato il latte tutte le mattine, ma è il nostro braccio debole e va amputato». Il 28 aprile, cinque giorni dopo le amministrative che a dispetto dei sondaggi da prefisso telefonico registrano una sostanziale tenuta della Lega, lo strappo si ricuce. «Aveva ragione Bossi», scrive in una lettera aperta Maroni.

Sono passati 17 anni da allora. Bossi non è più quello di una volta (e soprattutto certe battaglie non le combatte in prima persona ma sono altri a lanciarle per lui) ed è cambiato anche Maroni. Eppoi sono diversi tempi e modi.

Perché quello di oggi non è uno scontro tra due «amici» che di punto in bianco si trovano su fronti opposti. Ma un una fotocopia sbiadita di un cliché ormai in bianco e nero. Nel quale difficilmente Maroni seguirà lo spartito del ’95. Con il rischio che questa volta la Lega ne esca davvero in frantumi.

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