
da Roma
È da qui, dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, che si staglia candida e imponente alle spalle di Villa Borghese, che conviene partire per annusare come vanno le cose sul fronte del contemporaneo a Roma. Annusare è verbo non casuale: il museo ospita la prima mostra personale in Italia dell’artista turco di origine curda Ahmet Günestekin (da oggi fino al 28 settembre) Yoktunuz, Eravate assenti, è il titolo dell’esposizione, curata da Sergio Risalti e Paola Marino, che presenta una serie di sculture, dipinti e installazioni monumentali in dialogo con opere della collezione permanente del museo. Ebbene, una di queste, Picco di Memoria, gigantesca montagna di dolore di scarpe di gomma nera, simili a quelle che venivano vendute dai contrabbandieri al confine turco/irakeno, è stata appena rimossa dopo una protesta (sotto forma di lettera-pizzino mandata a Repubblica) «del personale di vigilanza e accoglienza e assistenza alla fruizione», infastiditi per la sgradevolezza dell’odore (che si avverte appena, ma all’ingresso il personale tiene per plateale e a nostro giudizio esagerata protesta la mascherina mentre si sventaglia).
Günestekin, che è artista capace di dare il giusto peso alle cose (per inciso: ha appena scelto Palazzo Gradenigo, a Venezia, come sede della sua fondazione dove sostiene con borse di studio studenti turchi) «per rispetto alla direzione e ai lavoratori» ha preferito rimuovere l’installazione, peraltro «già esposta altrove senza lamentele», ricordando però che «l’opera ha un odore acre, pungente perché la povertà, la morte non sono profumate, ma immagino che fuori da certi contesti le realtà più terribili siano ormai solo uno spettacolo virtuale».
Touché. Il lavoro, espressamente dedicato ad eventi tragici in Turchia (tra cui la morte dei minatori rimasti sottoterra a Soma nel 2014 e l’assassinio del giornalista turco di origine armena Hrant Dink nel 2007) vive ora in Sala della Battaglie una seconda (inodore) vita, grazie a una performance realizzata dall’artista l’altro ieri e vista dal Giornale in anteprima. Ora nella sala sono presenti sacchi con dentro parte delle scarpe a forma circolare con al centro solo due paia simboliche di una donna e di un bambino in dialogo con la Crocifissione di Renato Guttuso e con quadri di battaglie dedicate all’Unità d’Italia.
Il resto del percorso espositivo è punteggiato da altre gocce di memoria in drammatica relazione con pezzi del museo: su tutte spicca l’installazione che dà il titolo alla mostra, composta da centinaia di oggetti quotidiani raccolti tra le macerie di Diyarbakir, città patrimonio dell’Unesco e teatro di grandi scontri nel conflitto turco – curdo: è posizionata davanti alla perfezione neoclassica dell’Ercole e Lica di Antonio Canova e, da sola, vale la visita.
Ci muoviamo nelle sale del museo che conserva la collezione più importante al mondo di arte moderna e contemporanea italiana (20mila opere) insieme alla direttrice Renata Cristina Mazzantini, architetto, un passato al Quirinale su cui tanto è stato detto e scritto, spesso a sproposito. Ad un anno e sei mesi dal suo insediamento (e con in mezzo la moFuturismo), sul stra -monstre Mazzantini, senza nascondere le criticità («la struttura ha impianti obsoleti, molto c’è da fare, non ho la bacchetta magica»), si è mossa con passo leggero ed elegante sulle polemiche, ridisegnando senza mai chiudere il museo al pubblico le sale espositive dedicate alla collezione permanente. Resta da riallestire la sezione 4 (dall’Arte Povera alla Transavanguardia e qualche altra sala da riorganizzare), ma tutto sarà pronto a fine luglio. «Amo procedere per confronti più che per contrasti – ci ha detto -: ho voluto concepire un percorso che desse priorità agli spazi e che fosse facilmente comprensibile. Il lavoro museografico è come un ventriloquo che deve dare voce alle opere, non prendersi la scena». Niente accostamenti arditi o criptici, ma rigore e chiarezza (bello, ad esempio, vedere i muscolari Capogrossi prendersi una sala luminosa prima dello spazio intimo riservato alle pitture di Morandi, o il dialogo tra Pollock e Vedova).
L’obiettivo è quello di esporre un migliaio di opere (prima erano la metà) e trasformare il museo in un vero e proprio centro di ricerca sulla conservazione di opere d’arte contemporanea su carta.
Un primo passo in questa direzione è appena stato fatto: la Cy Twombly Foundation ha donato alla GNAMC 12 opere (11 dell’artista americano e romano “di cuore”, e una di Picasso), una mossa da 39milioni e mezzo di dollari che prevede – caso quasi unico nel Bel Paese - anche una donazione di 3 milioni di dollari per la riqualificazione del
laboratorio di restauro del museo e l’istituzione di un master in restauro di opere su carta con due borse di studio intitolate all’artista, «aspetto che rende particolarmente virtuoso questo progetto», conclude Mazzantini.