Gli artigiani e la «chiesa» di McKinsey

«Hai visto? Al nostro lavoro hanno dedicato tre parole»: la kermesse per il bicentenario di Piazza Affari è terminata da pochi minuti, sul volto di uno dei professori-banchieri che sono stati protagonisti della privatizzazione di Borsa, il sorriso è amaro mentre si allontana a piedi da Palazzo Mezzanotte. «Stavamo notando proprio questo, è la chiesa McKinsey», ribatte un altro grande ex della Borsa, mentre stringe la mano a chi scrive. Il riferimento è al bell’opuscolo in cui il presidente Angelo Tantazzi e l’amministratore delegato Massimo Capuano hanno raccolto i propri interventi per i duecento anni del mercato finanziario milanese. Venti pagine nelle quali lo sforzo profuso dai vecchi consigli della società mercato appare appena accennato. È il periodo tra gli anni ’80 e l’inizio del decennio successivo, quando sono stati gettati «tre dei pilastri su cui si è poi costruito lo sviluppo del mercato», ricorda Ettore Fumagalli, che è stato a lungo presidente dell’ex Borsa Valori dove era entrato appena trentenne come agente di cambio. A partire «dalla riforma del mercato e degli intermediari del 1991 e dalla creazione del mercato dei derivati, l’Idem», prosegue Fumagalli ricordando lo sforzo profuso con l’allora presidente del consiglio Bettino Craxi per fare comprendere come la Borsa avrebbe potuto rappresentare un volano per il Paese. A cui si è aggiunto il «centro elettronico che ha costituito la base della forza di Milano nelle operazioni di pre e post trading». Uno degli atout che la scorsa estate Borsa Italiana ha portato in dote al London Stock Exchange.

L’asse con Londra ha permesso a Piazza Affari di concorrere a creare la maggiore Borsa in Europa ma - secondo Fumagalli - «sarebbe stata più logica per cultura una integrazione con Euronext. Anche perché quella stabilita tra Milano e Londra è la fusione di un nano con un gigante».

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