Ascanio Celestini: «La società? È un manicomio»

Laura Novelli

Abito nero, scena spoglia, una sedia al centro e un fiume di parole, ricordi, visioni, emozioni, sorrisi, paure. Il teatro di Ascanio Celestini lo si racconta semplicemente così. Come si fa per le cose autentiche della vita. Perché ogni suo lavoro ha dietro una devozione assoluta all’uomo della strada, all’esistenza quotidiana della gente comune, alla storia costruita dagli umili. Quella storia popolare e tacita che nei suoi celebri monologhi (da «Radio clandestina» a «Fabbrica» fino al più recente «Scemo di guerra») ci ha mostrato pagine emblematiche del nostro passato quali l’eccidio delle Fosse Ardeatine, il mondo operaio italiano del Novecento, la Roma dei bombardamenti e della liberazione anglo-americana. Confondendo lacrime e sorrisi. Sovrapponendo cronaca e vicende familiari, fatti di dominio pubblico e autobiografia. Ora, questo teatrante sensibile ed eclettico (qualche mese fa ha pubblicato, appunto, per Einaudi il romanzo Scemo di guerra, già entrato nella rosa dei successi letterari dell’anno; alcuni dei suoi lavori sono stati trasmessi dalla Rai e significativa è anche la sua attività radiofonica) torna all’Ambra Jovinelli, da martedì prossimo, con un nuovo spettacolo da lui scritto e interpretato che, però, guarda al presente prendendo spunto dalla realtà della reclusione manicomiale nel nostro Paese prima e dopo la legge Basaglia. «La pecora nera (elogio funebre del manicomio elettrico)» si intitola questo atteso allestimento della stagione in corso che, già accolto da consensi unanimi al suo debutto perugino, affonda le radici «in una memoria dell’oggi - spiega Celestini - in cui mi interessa analizzare il manicomio in quanto istituzione, luogo vuoto in cui si perde la propria identità e si vive un quotidiano che giorno dopo giorno incide giocoforza su quanti stanno dentro: infermieri, medici, pazienti che siano». Dunque è l’esperienza personale di chi in manicomio ha lavorato o è stato rinchiuso il vero oggetto di questo monologo-inchiesta. Non per niente ci sono voluti tre anni di ricerche, laboratori, interviste (il progetto, coprodotto dallo Stabile dell’Umbria, ha preso il via proprio a Perugia) per mettere a segno quest’ennesima avventura umana e artistica di Celestini. Sorprendentemente capace di affrontare la complessità del tema senza farsi corrompere da cliché o luoghi comuni: «Quello che tento di raccontare ne La pecora nera è la manicomializzazione della società contemporanea. Che riguarda ognuno di noi». In che senso? «Basti vedere l’uso smodato che oggi si fa degli psicofarmaci. Oppure basti considerare un luogo come il supermercato: se l’ospedale psichiatrico è un posto che ti spoglia di tutto, un supermercato, offrendoti tutto e più di tutto, agisce anch’esso in termini di spersonalizzazione e di perdita dell’identità». A smarrire se stesso è qui Nicola, un uomo «morto quest’anno» (come recita una frase ben visibile in scena) che ha vissuto per 35 anni in manicomio, «anche se solo alla fine si capisce se vi sia stato come infermiere o come paziente», e che rievoca la sua storia da vivo (ecco giustificato «l'elogio funebre» del sottotitolo) partendo dai «mitici» anni Sessanta. «L’infanzia di Nicola - riprende l’autore/attore - risale a quel favoloso periodo, ma è proprio nell’impatto con la prima istituzione della sua vita, la scuola, che si pone il seme della sua futura reclusione in manicomio. Il mio, insomma, vuole essere un discorso che riguarda le istituzioni nel loro complesso». Tanto più che tra le testimonianze raccolte nella fase preparatoria c’è quella, assai emblematica, di Alberto: «Un paziente che è stato rinchiuso in manicomio per 42 anni ma che ci è capitato per caso, solo perché era orfano e non sapevano dove metterlo». Difficile immaginare che su questa umanità così eterogenea e così segnata dalla vita si riesca anche a sorridere. Eppure lo spettacolo diverte e strappa non poche risate. Come è giusto che sia, visto che «l’uomo - conclude Celestini - non è mai solo tragedia o solo commedia.

Credo inoltre che l’ironia scatti qui in modo del tutto naturale, proprio perché parlo di cose a noi vicine: il supermercato, la morte di papa Wojtyla. Si crea, cioè, una rispondenza immediata con gli spettatori». Repliche fino al 5 febbraio. Informazioni allo 06/44340262.

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