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«È assurdo obbligare nel rugby è spontaneo»

Parla Troncon: «Ciò che gira intorno al calcio è molto lontano dai valori sportivi»

da Milano

«Il calcio che copia il rugby? Mi fa piacere, è ovvio, ma adesso non vorrei che si esagerasse...». Alessandro Troncon è stato fino a due mesi fa capitano della nazionale italiana di rugby. Una nazionale che ha saputo fare tanta strada, soprattutto sotto il profilo dell’immagine, ma che adesso non vuole fare la figura della prima della classe. Forse anche per non passare per antipatica. E Troncon, che dal prossimo Sei Nazioni passerà nello staff tecnico, è il primo interprete di questa linea: «Mi fa piacere che si porti il rugby come esempio, perché vuol dire che abbiamo fatto qualcosa di buono. Ma sinceramente non mi piacciono i confronti con gli altri sport. Il rugby è il rugby, il calcio è il calcio, non so quale sia meglio o quale sia peggio».
Ma il calcio ha dimostrato di voler seguire il vostro esempio.
«Bene, vuol dire che sotto certi aspetti sta facendo un passo avanti. Ma non sta a noi giudicare».
Il rito del saluto a fine partita, insomma, non le sembra una cosa così eccezionale...
«Si tratta di un gesto spontaneo. Anche domenica, quando l’ho visto fare dai giocatori di Fiorentina e Inter, mi è sembrata una cosa naturale. Forse perché noi siamo abituati a farla fin da quando siamo ragazzini e per noi è una tradizione importante. Alla fine di una partita è giusto congratularsi con chi ha vinto. Anche se magari credi di aver perso ingiustamente. Però, a mio avviso, nello sport vale una regola: se hai perso è sempre colpa tua».
Di questi saluti a fine partita ne ha vissuti tanti. C’è qualche episodio che ricorda particolarmente?
«Forse l’ultimo, a St. Etienne. Ma lì c’era un motivo particolare e tutto mio, perché sapevo che sarebbe stata l’ultima volta che uscivo dal campo da giocatore».
Nel mondo nel calcio lo stanno chiamando impropriamente terzo tempo. Che effetto le fa?
«Non c’entra niente con il terzo tempo, che è un momento da vivere dopo la partita. In campionato magari è solo mezz’oretta nella club house del campo a bere qualcosa di sbrigativo. Nelle partite del Sei Nazioni è un ricevimento in pompa magna. Ma alla base di tutto c’è sempre la voglia di stare con gli avversari».
Lo consiglierebbe al calcio?
«No, non si tratta di consigliare. Ognuno ha le proprie tradizioni ed è giusto che le segua. Il terzo tempo fa parte della nostra filosofia».
Ma che cosa vi rende diversi dal calcio?
«Quello che c’è fuori dal campo. Il calcio è uno sport molto bello. Mi piace e lo seguo. Ma tutto quello che gira attorno al calcio, il contorno, il tifo violento, le esasperazioni dei giornali e della tv, è molto lontano dai valori dello sport».
Ma lei manderebbe suo figlio a giocare a calcio?
«Perché no? Se gli dovesse piacere...».
Trova logico che la Lega calcio abbia deciso di regolamentare il saluto a fine partita?
«No, non ci deve essere nessun obbligo. Deve essere una cosa assolutamente sentita. Stringersi la mano è un gesto naturale. Direi che c’è quasi il bisogno di ringraziare l’avversario perché ha giocato con te, per la sua lealtà. E anche se c’è da discutere meglio farlo lealmente».
E non le è mai capitato di aver voglia di andarsene senza salutare?
«Non mi ricordo. Magari qualche volta è successo, ma non l’ho mai fatto.

Noi salutiamo sempre».

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