Assurdo, tragedia, ironia. Le terapie d'urto del dottor Jannacci contro il conformismo

Nel documentario di Giorgio Verdelli presentato a Venezia emerge un uomo fuori da ogni schema L'anima popolare della Milano di un tempo si sposa a testi spiazzanti e a genialate musicali

Assurdo, tragedia, ironia. Le terapie d'urto del dottor Jannacci contro il conformismo
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«Jannacci arrenditi sei circondato, c'è qui anche tua madre, non fare pazzie, Jannacci esci fuori dall'edificio e rientra nel sistema». Inizia così il documentario Enzo Jannacci vengo anch'io di Giorgio Verdelli, con il cantautore stesso che, nello splendido materiale d'archivio, sfoggia tutta la sua proverbiale autoironia, definendosi in Jannacci, arrenditi. Presentato fuori concorso alla 80ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, con un red carpet movimentato dalla banda dei Funk Off insieme al figlio Paolo Jannacci e a Paolo Rossi sulle note di Vengo anch'io, no tu no, il nuovo lavoro di Verdelli, che negli ultimi anni si è specializzato sul lavoro di grandi artisti come Pino Daniele, Paolo Conte e Lelio Luttazzi, commuove, diverte, fa pensare a un'altra Italia, non necessariamente migliore ma molto diversa e molto originale, grazie alle indimenticabili canzoni di Enzo e alle molteplici testimonianze di chi lo ha conosciuto bene, da Diego Abatantuono a Cochi Ponzoni, da Massimo Boldi a Nino Frassica, da Paolo Conte a Roberto Vecchioni e a Paolo Rossi, fino a Vasco Rossi.

In Enzo Jannacci vengo anch'io, prodotto da Sudovest produzioni e da Indigo Film, e in uscita come evento nelle sale con Medusa l'11, il 12 e il 13 settembre, c'è il cantante della sua Milano, quella degli ultimi con la «letteratura del sentimento della povera gente di tutti i giorni», come dice Vecchioni, e del «l'era un barbùn» (oggi si potrebbe dire?), del «si è aperta la portiera, è caduto giù l'Armando», della vita che «è bella e brutta e puttana» ma anche «lunga e piena di dolori e altre porcherie che ho combinato».

C'è lo Jannacci che a Paolo Rossi confida: «Meglio un fiasco trionfale che un successo cordiale» e che spiega perché nella sua canzone si parla di scarpe del e non da tennis, «è un mondo quello evocato». Insomma c'è il genio della musica italiana, laureato in Medicina, che in televisione scardinava le messe cantate apparendo come un oggetto non identificato nell'Italia degli anni '60 («Il Buster Keaton dello spettacolo italiano», copyright Massimo Martelli) anche se, ripeteva spesso, «i diversi sono quelli per i quali noi siamo diversi».

Un mondo di pensieri anarchici e sempre spiazzanti. Per questo, giustamente, il regista Giorgio Verdelli dice che non ha voluto fare una biografia di Enzo Jannacci, «ma un'esplorazione del suo mondo insieme ai suoi amici e i suoi allievi di più generazioni. L'artista Jannacci era inscindibile dall'uomo, dal genio creativo capace di dire La vita è un buco nero in fondo al tram in Io e te, ma anche Stessa strada, stessa osteria, stessa donna, una sola, la mia in L'Armando, con una capacità di sintesi e di invenzione che non ha mai smesso di stupire ed emozionare».

Con le tante testimonianze che sottolineano anche la sua importanza come musicista che aveva mosso i primi passi con Gaber e il primo gruppo rock and roll italiano di Adriano Celentano, i Rock Boys. E per un Paolo Conte che afferma deciso che «è il più grande cantante che il nostro Paese abbia mai avuto», ce n'è un altro, Francesco Guccini, per il quale «aveva uno strano modo di cantare ma era un grande musicista», anche se quando riceveva una sua telefonata per lui era un incubo «perché non si capiva niente di quello che diceva». Idem Diego Abatantuono: «Enzo era anche difficile da frequentare, perché non lo capivi». Ma anche su questo aspetto la sua autoironia era tagliente: «Se capite tutto quello che dico, avvisatemi, perché vuol dire che sono uscito fuori dal personaggio».

Vasco Rossi, che con lui ha cantato Vita spericolata, dice di amare «la sua vena ironica, amara e feroce» e di essersi ispirato alla sua Messico e nuvole per la frase «vado al massimo, vado in Messico»: «Ho cominciato a fare del rock ma forse c'era più feeling con Jannacci che con Elvis Presley». Roberto Vecchioni inquadra il suo «unico grande genio in senso pirandelliano perché fa quello che non ti aspetti mai, sia nel comico che nel tragico».

Anche per

questo, conclude il regista, «ci manca Jannacci. Ci manca molto quel suo sorriso stralunato e intelligente capace di catturare con una parola, con un lampo di arguzia negli occhi, capace di racchiudere un mondo nel Perché no».

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